Siamo fuori di testa, ma diversi da loro. Vademecum per un concerto rock da genitori.

Il concerto dei Maneskin è un’esperienza unica: condividerla con i propri figli può donare o far perdere 20 anni. Qualche consiglio ai genitori per viverne appieno la gioia senza soccombere.

Premetto: erano anni che non partecipavo ad un evento in un palazzetto con spettatori in ogni ordine di posto. È bastata l’alternanza di buio improvviso e luci accecanti, silenzio inatteso e batteria rullante, a ricordarmi l’emozione sfrenata dei miei 20 anni e la necessità di controllarla a 45.

Il concerto dei Maneskin è un’esperienza artistica e sensoriale unica. I 4 favolosi ragazzi di Monteverde sono musicisti straordinari e soprattutto generosi con la voce, con gli strumenti, con tutto il loro corpo, offerto senza timore al proprio pubblico: si lanciano sulle prime file, appaiono all’improvviso nelle ultime, accolgono sul palco e ritornano per bis che sono intensi quanto lo spettacolo appena concluso.  Ammetto di unire l’ammirazione per loro alla stima nei confronti degli addetti alla sicurezza che li recuperano dalle braccia appassionate di chi non vorrebbe lasciarli andare, dimostrandosi sempre pronti all’imprevista discesa nel parterre: c’è chi ha portato sulle spalle Thomas, mentre continuava a suonare la chitarra, in giro per metà palazzetto. Un’energia forse frutto dell’educazione con cui i quattro ringraziano in continuazione chi li osanna e chi li aiuta ad essere osannati.

C’è, però un’esigenza che voglio manifestare, chiara sin dai primi minuti in cui mi sono seduta nel posto 10 del settore Q della gradinata con vicino Viola, trasfigurata dalla venerazione per il divino Damiano, davanti a due padri con le loro figlie ancor più trascinate dal delirio: servono suggerimenti per condividere la gioia, mantenendo dignità e fiato fino all’ultima nota. Confesso di scrivere con l’emicrania, conseguenza scontata per non aver compreso appieno l’avvertimento “attenzione ci saranno effetti di luci stroboscopici”.

Il punto di partenza di questo sciocco vademecum è : ricordiamo che “siamo fuori di testa ma diversi da loro”.

L’attesa fuori dai cancelli. Non stiamo per assistere ad un saggio di danza o ad una partita del torneo delle società sportive cittadine, ma non attendiamo nemmeno di accedere alla cena di Satana. Poche domande e considerazioni della serie “sei emozionata, sei contento, sarà bellissimo, hai visto che ce l’abbiamo fatta”, ancora meno raccomandazioni tipo “se è troppo forte il volume dimmelo! Segui le indicazioni degli operatori di sicurezza! Non ti preoccupare che non ci perdiamo”. Ragazze e ragazzi hanno una predisposizione naturale allo stupore e, fondamentalmente, accettano la nostra presenza solo perché funzionale allo scopo, ma saprebbero benissimo cavarsela da soli, anzi affidiamoci e facciamoci contagiare dalla loro serena normalità.

L’abbigliamento. In funzione del primo punto, mi sento di consigliare: non esageriamo con il tentativo di mistificazione per adeguarsi al contesto, ma prendiamone atto per la sopravvivenza. Prendo spunto dal mio errore: canottiera, maglietta a maniche lunghe accollata, maglioncino fosforescente, pantalone di pelle aderente. Unico elemento di genio: le scarpe da ginnastica non piatte. Nei palazzetti gremiti la temperatura può superare i 40 gradi: la sudorazione eccessiva è una certezza anche se, impossibile ma tollerabile, si sta fermi. Ci si deve vestire consapevolmente a cipolla. Madri e padri non dimenticate: è l’ultima maglietta indossata a fare la differenza, perché con essa ci esporremo agli occhi soprattutto dei nostri figli! I tacchi: o si è una top model esperta oppure dopo tre ore di salti e corse sui gradini si è collezionato un patrimonio indistruttibile di enzimi della ritenzione idrica.

I movimenti. In molti non andiamo più a messa la domenica, se capita, c’è il prete che indica quando sedersi e quando stare in piedi. Ad un concerto in cui la batteria non cessa mai il suo rombante mestiere, sono le bacchette a dare un senso alla nostra postura. Se proprio non si possiede il senso del ritmo, chiudete gli occhi o apriteli meglio e fatevi guidare dall’onda. Tutti in piedi a saltare, allora si recuperano gli ultimi brandelli di agonismo e ci si sforza almeno di rimanere eretti. Parimenti, l’eccesso sarà punito da sguardi di comprensibile imbarazzo delle nostre creature. Si vede che abbiniamo il Gioca Jouer a Beggin: facciamo di meno e niente braccia in avanti da rapper se non conosciamo il giusto rapporto delle distanze! Leoni e leonesse da discoteca over 40, ricordate che lì andate senza figli, la sinuosità, se innaturale, suscita al massimo tanta tenerezza. Attenzione poi al salto del gradino: si può contare sulla solidarietà di altri genitori che issano e recuperano da cadute possibili, ma se non ci sono appigli è tutta responsabilità dell’iscrizione andata nulla in palestra.

L’uso del telefono. I padri davanti a noi non hanno mai smesso di scattarsi selfie con espressioni che riuscivo ad intravedere, degne della migliore trasposizione comica dell’evento: un pezzo di occhio chiuso o di pupilla dilatata, risate ingiustificate, spalle e orecchie da manuale di anatomia, abbracci forzati con figlie visibilmente inconsapevoli dello scatto. Chi potrebbe seguire un concerto dei Maneskin attraverso la diretta traballante di due quasi cinquantenni in camicia o maglietta eccessivamente aderente che si riprendono in primo piano mentre fingono di struggersi o di esaltarsi mimando testi che non conoscono? Guardando loro e la faccia di Viola nel mio secondo tentativo di selfie, ho riposto il mio telefono nella tasca del giubbotto piegato. Consiglio vivamente di seguire l’esempio.  

La resistenza. Tutti gli elementi fin qui citati compongono il quinto punto su cui focalizzare. Bisogna affrontare l’evento affondo fino alla fine. Sudati, senza più voce, con le giunture ormai donate alla causa, la carica del telefono al 3% che può sembrare una brutta metafora, si deve mantenere un ruolo genitoriale nei confronti di coloro che non assomigliano più ai nostri figli, ma a fratelli e sorelle di Damiano, l’unico da cui accettano indicazioni per la vita . Ho gridato anche io “fuori fuori” dopo che credevo di avercela fatta, ma piangevo dentro, consapevole di aver già oltrepassato i limiti consentiti alla mia vista, al mio udito, alla mia deambulazione. Giunti quasi al finale, ho aperto un gran sorriso verso Viola, ormai senza più espressioni riconoscibili nel volto, appresa la sua palese indifferenza, mi sono seduta, ho respirato e bevuto persino un sorso d’acqua mentre come un mimo francese nel buio indossavo discretamente il maglioncino. Non le ho intimato di rivestirsi quando si sono accese le luci, ma, a pochi passi dal freddo dell’esterno, raggiunto in maniera rapida, schivando gli altri con la destrezza conservata dal non aver ceduto al consumo di birra, ho avuto la prontezza di buttarle addosso la giacca che in maniera automatica ha chiuso. I due padri davanti a me guardavano le figlie saltare alla balaustra, rassegnati ad averle perse, dopo essersi dimenati affannosamente nell’ultimo video, hanno gridato senza voce i nomi delle ragazze, producendo versi sconnessi per convincerle a seguirli. Mi sono girata a spiare le loro reazioni: potrebbero essere ancora lì.

La felicità. Un concerto rock di musicisti giovani e appassionati, seguiti principalmente da un pubblico di ragazze e ragazze giustamente scatenati, è un’esperienza in grado di restituire o togliere 20 anni in poche ore. Condividere il viaggio nel tempo con i propri figli suscita emozioni che spossano, arricchiscono, portano inebetiti alla meta. Per cui di tutti i consigli semiseri che mi sento di dare, il principale è: non dimenticate che la felicità passa anche da questi momenti. Ha bassi, rulli, toni, movenze a cui dobbiamo abbandonarci senza paura, perché non c’è sensazione più esaltante di mostrare alle nostre creature  che siamo diversi da loro, ma ugualmente, per una sera, fuori di testa insieme.  

Per tornare a casa abbiamo preso al volo un taxi mentre ci avviavamo a piedi, dividendolo con una coppia di ventenni bolognesi: vagavano gaudenti, ma confusi. Ho pagato io perché così ho fregato veramente l’anagrafe: dai 45 ai 20 e ritorno in cinque ore nette.

Mare fuori che resta dentro

Questa sera su Rai due iniziano le puntate della terza stagione della serie, ideata da Cristiana Farina. Gli affezionati dalla prima, come chi scrive, le hanno già viste tutte e dodici su Rai play, bramando che al più presto ne vengano realizzate e trasmesse anche di più per la quarta. Ecco perché è necessario non perdere nemmeno una scena.

“Appiccio n’ata sigaretta

Allà ce sta mammà che chiagne, nun dà retta…”

Poche note, le prime parole e l’inno di ‘O Mare fore avvolge nelle trame delle storie che andrà a sottolineare. La musica traina nel microcosmo distante e intriso di realtà dell’IPM di Napoli. Dialoghi, silenzi, sguardi e suoni mettono lo spettatore al fianco dei protagonisti per soffrire i  dolori, sfidare le paure, condividere le emozioni e nutrire le speranze. Filippo, Carmine, Nadiza, Silvia, Viola, Edoardo, Pino, Rosa diventano ‘o chiattillo, ‘u piecuro, la zingara, la spesina, ‘o pazzo, soprannomi che sono marchi di vita, con cui inevitabilmente si finisce per identificarli, togliendo la valenza negativa, mantenendo la famigliarità del richiamo.

La serie Rai, ideata da Cristiana Farina è alla terza stagione, finalmente ottenendo il meritato successo che si deve ad un lavoro intenso di scrittura dei personaggi, direzione e interpretazione. La chiave sta in una miscela in cui gli occhi e i sentimenti si perdono e si ritrovano.

Chi pensa di vedere l’ennesima indagine sul disagio giovanile di una generazione preda dei miti della criminalità, narrata secondo la retorica del bene e del male in un clima di desolante rassegnazione o irreale risoluzione, viene spiazzato da un registro che non vuole innescare tifoserie, basate su abusati luoghi comuni.

Prima di tutto c’è Napoli, incantevole e maledetta protagonista, mostrata nei suoi angoli meno noti, dalle calette baciate dal sole, alle metropolitane scintillanti di arte; dalle terrazze affacciate sul dipinto del panorama ai cunicoli sotterranei nelle viscere della città. Non mancano i bassi desolati, i vicoli in cui si spara e la sontuose case dei boss, incastonate tra degrado e oro, ma si intrecciano in una mappa in cui si comprende come ogni percorso si possa inevitabilmente incontrare in un incessante scambio tra luci e ombre.

Napoli accompagna con le sue atmosfere fino a dentro il carcere, illumina il cortile e spia dalle sbarre con i suoi infiniti cieli di stelle e il sole riflesso nel mare.

Il mare è l’altra via maestra della sceneggiatura e della scenografia.

“Qua c’è ‘o mare fori, Genna’, a Milano no.” Dice Filippo, ‘o chiattillo, studente del conservatorio milanese finito per un assurdo caso del destino a scontare una pena per omicidio nell’istituto, dove in un anno conosce la vita, l’amicizia, l’amore, la sua destinazione, al punto da soffrire quando dovrà lasciarlo. “Tu portatelo dentro” gli risponde Gennaro, la guardia penitenziaria più anziana, mentre scende una lacrima.

Nell’IPM della serie si entra per colpe spesso indirette, causa di esistenze al margine, di famiglie assenti o troppo presenti; per solitudine o per emulazione, ma dentro nessuno viene giudicato colpevole: c’è un percorso neutrale costruito dalle ore precedenti l’arresto al momento in cui si svela la trama. La scrittura vale per i detenuti, come per gli educatori, per la direttrice e per il comandante.

Lo schema è unico e molteplice, originale, avvincente, abile ad invertire la logica prevista e prevedibile. Se all’inizio stride il fascino trasmesso dai più violenti e rispettati, dopo poche puntate si fa coerente l’emergere di un codice che si modifica. Non ci sono eroi o modelli di riferimento negativi e positivi, ma persone che crescono insieme. Non troviamo identità fisse e inscalfibili. I figli dei boss sono spavaldi, vogliono prevalere, sembrano avere la guerra nel DNA, poi diventano fragili, si spaventano, vogliono scappare da un destino scritto. Proprio in quel passaggio, che purtroppo per molti può essere fatale, si trasformano in esempi, degni di considerazione.

Allo stesso tempo gli adulti, dal personale del carcere ai genitori, si ergono, gridano, si inabissano, sussurrano, piangono e sorridono con “guaglione e guaglioni” che sono spesso i riferimenti in cui ritrovarsi e da cui far ripartire un percorso professionale o di vita.

Non sono i ruoli riconosciuti come i legami scritti nei certificati a guidare i rapporti. Si stringono amicizie che vanno oltre la fratellanza, nascono amori che stracciano le faide o stravolgono gli stereotipi, si scoprono le passioni e si rintracciano quelle perse.

Gli abbracci e i baci sono imprevisti, esplodono nel cuore con l’eguale forza dei proiettili e dei calci mai attutiti per esigenze di copione.

Qui sta l’alchimia di una serie che finalmente ha il meritato successo per arrivare a coetanei di Filippo, Carmine, Rosa, Silvia, vicini o lontani chilometri geografici e culturali delle loro storie.

Nulla va come pensiamo debba andare, ma tutto ci sembra procedere nel verso giusto per comprendere e partecipare ad una realtà vera che ha colori, sfaccettature, umori ed emozioni, gli occhiali limpidi attraverso cui essere osservata.

“Nun te preoccupà guagliò ce sta ‘o mare fore”, il verso cantato, ritmato, gridato da coloro a cui la rassicurazione è rivolta, arriva a smuovere la speranza di ognuno.

Questa sera su Rai due iniziano le puntate della terza serie, gli affezionati (come chi scrive) le hanno già viste tutte e dodici su Rai play, bramando che al più presto ne vengano realizzate e trasmesse anche di più per la quarta. Sarebbe necessario che si portassero nelle scuole i protagonisti, i bravissimi attori e coloro che hanno ispirato la scrittura dei loro personaggi perché c’è bisogno di scavare nelle sfumature del buio per trovare insieme una strada condivisa “‘aret’’e o sbarre o sott’’o cielo”.

Di amore e speranza

In una giornata dedicata all’amore, non riesco a pensare cosa altro possa movere il sole e l’altre stelle: gli occhi dei bambini che, dalle culle di un ospedale alle intercapedini di un muro, sono stati protetti per illuminarci.

Gli occhi dei bambini sono luci sul futuro piene di storie. In due piccole sfere contengono inconsapevole conoscenza infinita e codici unici da trasmettere a chi li riesce a osservare. Solo chi ha forza o incoscienza ce la fa a sostenerne il bagliore. Nei momenti di incertezza costituiscono il segnale per la salita: aperti e sorridenti ,consentono di riprenderla; chiusi o persi, decretano la definitiva resa collettiva.

Del sisma che ha devastato due paesi, abbattendo i resti dell’antichità, mentre ne flagellava il presente, ci sono tante evocazioni del dolore, impresse in video ed immagini, poche riescono a smuovere altre emozioni: sono i fotogrammi in cui si impongono gli sguardi dei piccoli sopravvissuti.

Avvolti dalla terra dell’incubo che li ha ricoperti mentre sognavano, fissano i loro soccorritori, restituendo senso alle loro mani instancabili, ferite e fiere di contenere quell’inatteso dono. Contemporaneamente squarciano chilometri e indifferenza, raggiungendo chi è spettatore attonito o distratto. Sono un lampo di speranza che si offre al mondo, interrogando sull’ingiustizia che si perpetua in alcuni luoghi dove la sopravvivenza è un obiettivo, non solo a causa del terremoto, anche per i neonati. Provano a richiamare attenzione e aiuto.

I bambini estratti vivi dalle macerie di una vita appena iniziata dovranno viverla. Forse non avranno che un frammento di ricordo della tragedia che li ha privati di ogni riferimento, ma si spera che riescano a ricostruire una bellezza possibile anche grazie a chi da loro ha ricevuto la fiducia per non arrendersi.

C’è un video che più di altri esemplifica le parole in un gesto. Non è stato girato a posta, ma è tratto da una registrazione dell’ospedale di Gaziantep in Turchia. Riprende due infermiere nella stanza di terapia intensiva neonatale. E’ il momento della scossa, la sala sembra capovolgersi, chi può dovrebbe fuggire, ma loro si guardano e restano lì, strette con tutto il corpo alle incubatrici per evitare si rovescino.

In una giornata dedicata all’amore, non riesco a pensare cosa altro possa movere il sole e l’altre stelle: gli occhi dei bambini che, dalle culle di un ospedale alle intercapedini di un muro, sono stati protetti per illuminarci.

Non dimentichiamolo domani e il resto dei giorni, restituiamo in minima parte il dono, contribuendo agli aiuti. Condivido le modalità di azione di Nawal Soufi quindi suggerisco una delle strade per farlo. Versare con Causale: “Terremoto” Iban: IT58Y0760101600001037851985 BIC/Swift: BPPIITRRXXX Nawal Soufi Bancoposta Paypal: nawalnoborder2@libero.it

Le tracce che non ti aspetti

Domani compio 45 anni, ho deciso di provare a rendermi conto della vita e a fermarne frammenti nella scrittura. Non saranno solo post, ma le mie tracce volanti, a volte spero di riuscire a farle incontrare con i racconti di quelle che trarrò dagli altri, parte integrante della mia continua indagine sulla realtà.  Intanto, su suggerimento e ispirazione di una regista di sette anni, oggi quasi 14, rifletto su cosa trasmetterei di queste giornate presenti e prossime alla me del futuro. Nulla è più straordinario della normalità.

Qualche giorno fa, Viola ha ritrovato dei video nella memoria del suo telefono. Non so attraverso quali benedetti algoritmi siano tornate indietro le immagini e le voci di una bambina di sette anni che si riprendeva con un potente tablet fucsia per raccontare dettagli della vita presente alla “lei del futuro”. Piglio deciso nella voce e nei contenuti, più oscillante e frenetico nelle riprese, per un anno intero ha riprodotto in quindici episodi, numerati ognuno all’inizio, la quotidianità di una piccola cronista del suo tempo, scandito da abitudini e imprevisti. Personaggio centrale: suo fratello Luca, tre anni, dichiarati a volte dieci, altre quattro, completamente succube della sorella – regista, di cui ripete ogni gesto e parola, smorzato dal ciuccio, un espediente involontario per doppiarlo come un attore dei western americani.

In un pomeriggio che nemmeno Zemeckis avrebbe potuto prevedere, ipnotizzata su un divano, mi sono persa nel passato segreto dei miei figli. C’ero anche io nei video, ripresa mentre vagavo per i corridoi al telefono; evocata dalla voce stanca quando ero necessaria a reggere la “telecamera”, così la definiva Viola, per immortalare le imprese della coppia; in un paio coprotagonista nella realizzazione di scenette. Ero una presenza nella storia in cui protagonisti erano loro, in grado di mostrarmi in pochi fotogrammi e suoni, la realtà della famiglia intera da una speciale prospettiva. Cinque, a volte anche otto minuti, nei quali la narratrice errante presentava la sua cucina, elencando le vicende che avevano condotto ogni calamita al frigo; descriveva gli oggetti “misteriosi”, disordinati sulle mensole della libreria, dalla pietra “presa da mamma e papà sul vulcano quando erano giovani”, alle macchine intoccabili; presentava gli amici che poi erano zii, cugini, nonni e la sua migliore amica Franci, ognuno con un giusto spazio e primo piano per indicare nome e ruolo nella storia .

Viola dirigeva i giochi, le sfide, le coreografie, le canzoni e persino gli scherzi che caratterizzavano mattine e pomeriggi in casa. In uno si sente Luca che le dice che “è bella da na morire”, in un altro “ho sonno, non ce la faccio più a giocare”. Lei, imperturbabile continuava, riportando l’immagine al centro sui suoi occhi più vispi di una centrale elettrica. C’è il video del compleanno di Luca mentre la torta arriva tra i richiami miei, di mia sorella e di nonno Giorgio per fare silenzio e il festeggiato che tenta di gettarsi dal seggiolone; c’è una pizzica sfrenata, ritmata da nonna Lucia, obbligata a inquadrare il perfetto movimento dei piedi della tersicorea nipote; c’è un tik tok ante litteram nel quale, all’ottavo ciack, riusciamo a ricreare suoni e immagini delle “scimmiette che cadevano dal letto”; c’è Valeria Luce minuscola che pensa di essere su un set fotografico e Francesco che non vuole più essere chiamato Chicco. Andiamo alla recita di Natale discutendo io e il papà sull’organizzazione di cene e pranzi per le feste, rassicurando Luca che non avrebbe dovuto fare lezione a scuola, ma cantare le canzoncine, “sarà uno spettacolo eccezionale” sottolineava la speciale cronista.

 “Non possiamo più perdere questi video!” Ho esclamato, occhi lucidi, tossendo per le tante risate miste alle lacrime. I ricordi sono battiti più forti nel cuore: squarciano il presente con il passato, lasciandoti nudo e coperto fino alle spalle per muoverti verso il futuro. Ho ritrovato i miei bambini, le mie stanze, la noia piena e l’entusiasmo veloce di anni che non credevo avessimo vissuto come Viola ha riportato. Scherzando, le ho chiesto “ridammi quella bambina, dove l’hai nascosta?”, fingendo di non riconoscerla nella stessa luce indagatoria e ironica con cui continua a scrutare ognuno di noi. Ho stretto Luca che ancora ha delle movenze da Clint, non è un caso che scherzando lo soprannominiamo “bambino”. Ho mostrato alcuni frammenti ad Anne e a mamma, tra tenerezza e malinconia.

Domani compio 45 anni, ho deciso di provare a rendermi conto della vita e a fermane frammenti nella scrittura. Non saranno solo post, ma le mie care tracce volanti, a volte spero di riuscire a farle incontrare con i racconti di quelle che trarrò dagli altri, parte integrante della mia continua indagine sulla realtà.  Intanto, su suggerimento e ispirazione di una regista di sette anni oggi quasi 14, rifletterò su cosa trasmetterei di queste giornate presenti e prossime alla me del futuro. Per affrontare il peso, provando a donare anche attimi di leggerezza, condividerò. Continuo ad inciampare, perché penso troppo con i piedi, piccoli, persi, nell’aria, ma qualche traccia rimarrà.  Nulla è più straordinario della normalità.

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