Siamo fuori di testa, ma diversi da loro. Vademecum per un concerto rock da genitori.

Il concerto dei Maneskin è un’esperienza unica: condividerla con i propri figli può donare o far perdere 20 anni. Qualche consiglio ai genitori per viverne appieno la gioia senza soccombere.

Premetto: erano anni che non partecipavo ad un evento in un palazzetto con spettatori in ogni ordine di posto. È bastata l’alternanza di buio improvviso e luci accecanti, silenzio inatteso e batteria rullante, a ricordarmi l’emozione sfrenata dei miei 20 anni e la necessità di controllarla a 45.

Il concerto dei Maneskin è un’esperienza artistica e sensoriale unica. I 4 favolosi ragazzi di Monteverde sono musicisti straordinari e soprattutto generosi con la voce, con gli strumenti, con tutto il loro corpo, offerto senza timore al proprio pubblico: si lanciano sulle prime file, appaiono all’improvviso nelle ultime, accolgono sul palco e ritornano per bis che sono intensi quanto lo spettacolo appena concluso.  Ammetto di unire l’ammirazione per loro alla stima nei confronti degli addetti alla sicurezza che li recuperano dalle braccia appassionate di chi non vorrebbe lasciarli andare, dimostrandosi sempre pronti all’imprevista discesa nel parterre: c’è chi ha portato sulle spalle Thomas, mentre continuava a suonare la chitarra, in giro per metà palazzetto. Un’energia forse frutto dell’educazione con cui i quattro ringraziano in continuazione chi li osanna e chi li aiuta ad essere osannati.

C’è, però un’esigenza che voglio manifestare, chiara sin dai primi minuti in cui mi sono seduta nel posto 10 del settore Q della gradinata con vicino Viola, trasfigurata dalla venerazione per il divino Damiano, davanti a due padri con le loro figlie ancor più trascinate dal delirio: servono suggerimenti per condividere la gioia, mantenendo dignità e fiato fino all’ultima nota. Confesso di scrivere con l’emicrania, conseguenza scontata per non aver compreso appieno l’avvertimento “attenzione ci saranno effetti di luci stroboscopici”.

Il punto di partenza di questo sciocco vademecum è : ricordiamo che “siamo fuori di testa ma diversi da loro”.

L’attesa fuori dai cancelli. Non stiamo per assistere ad un saggio di danza o ad una partita del torneo delle società sportive cittadine, ma non attendiamo nemmeno di accedere alla cena di Satana. Poche domande e considerazioni della serie “sei emozionata, sei contento, sarà bellissimo, hai visto che ce l’abbiamo fatta”, ancora meno raccomandazioni tipo “se è troppo forte il volume dimmelo! Segui le indicazioni degli operatori di sicurezza! Non ti preoccupare che non ci perdiamo”. Ragazze e ragazzi hanno una predisposizione naturale allo stupore e, fondamentalmente, accettano la nostra presenza solo perché funzionale allo scopo, ma saprebbero benissimo cavarsela da soli, anzi affidiamoci e facciamoci contagiare dalla loro serena normalità.

L’abbigliamento. In funzione del primo punto, mi sento di consigliare: non esageriamo con il tentativo di mistificazione per adeguarsi al contesto, ma prendiamone atto per la sopravvivenza. Prendo spunto dal mio errore: canottiera, maglietta a maniche lunghe accollata, maglioncino fosforescente, pantalone di pelle aderente. Unico elemento di genio: le scarpe da ginnastica non piatte. Nei palazzetti gremiti la temperatura può superare i 40 gradi: la sudorazione eccessiva è una certezza anche se, impossibile ma tollerabile, si sta fermi. Ci si deve vestire consapevolmente a cipolla. Madri e padri non dimenticate: è l’ultima maglietta indossata a fare la differenza, perché con essa ci esporremo agli occhi soprattutto dei nostri figli! I tacchi: o si è una top model esperta oppure dopo tre ore di salti e corse sui gradini si è collezionato un patrimonio indistruttibile di enzimi della ritenzione idrica.

I movimenti. In molti non andiamo più a messa la domenica, se capita, c’è il prete che indica quando sedersi e quando stare in piedi. Ad un concerto in cui la batteria non cessa mai il suo rombante mestiere, sono le bacchette a dare un senso alla nostra postura. Se proprio non si possiede il senso del ritmo, chiudete gli occhi o apriteli meglio e fatevi guidare dall’onda. Tutti in piedi a saltare, allora si recuperano gli ultimi brandelli di agonismo e ci si sforza almeno di rimanere eretti. Parimenti, l’eccesso sarà punito da sguardi di comprensibile imbarazzo delle nostre creature. Si vede che abbiniamo il Gioca Jouer a Beggin: facciamo di meno e niente braccia in avanti da rapper se non conosciamo il giusto rapporto delle distanze! Leoni e leonesse da discoteca over 40, ricordate che lì andate senza figli, la sinuosità, se innaturale, suscita al massimo tanta tenerezza. Attenzione poi al salto del gradino: si può contare sulla solidarietà di altri genitori che issano e recuperano da cadute possibili, ma se non ci sono appigli è tutta responsabilità dell’iscrizione andata nulla in palestra.

L’uso del telefono. I padri davanti a noi non hanno mai smesso di scattarsi selfie con espressioni che riuscivo ad intravedere, degne della migliore trasposizione comica dell’evento: un pezzo di occhio chiuso o di pupilla dilatata, risate ingiustificate, spalle e orecchie da manuale di anatomia, abbracci forzati con figlie visibilmente inconsapevoli dello scatto. Chi potrebbe seguire un concerto dei Maneskin attraverso la diretta traballante di due quasi cinquantenni in camicia o maglietta eccessivamente aderente che si riprendono in primo piano mentre fingono di struggersi o di esaltarsi mimando testi che non conoscono? Guardando loro e la faccia di Viola nel mio secondo tentativo di selfie, ho riposto il mio telefono nella tasca del giubbotto piegato. Consiglio vivamente di seguire l’esempio.  

La resistenza. Tutti gli elementi fin qui citati compongono il quinto punto su cui focalizzare. Bisogna affrontare l’evento affondo fino alla fine. Sudati, senza più voce, con le giunture ormai donate alla causa, la carica del telefono al 3% che può sembrare una brutta metafora, si deve mantenere un ruolo genitoriale nei confronti di coloro che non assomigliano più ai nostri figli, ma a fratelli e sorelle di Damiano, l’unico da cui accettano indicazioni per la vita . Ho gridato anche io “fuori fuori” dopo che credevo di avercela fatta, ma piangevo dentro, consapevole di aver già oltrepassato i limiti consentiti alla mia vista, al mio udito, alla mia deambulazione. Giunti quasi al finale, ho aperto un gran sorriso verso Viola, ormai senza più espressioni riconoscibili nel volto, appresa la sua palese indifferenza, mi sono seduta, ho respirato e bevuto persino un sorso d’acqua mentre come un mimo francese nel buio indossavo discretamente il maglioncino. Non le ho intimato di rivestirsi quando si sono accese le luci, ma, a pochi passi dal freddo dell’esterno, raggiunto in maniera rapida, schivando gli altri con la destrezza conservata dal non aver ceduto al consumo di birra, ho avuto la prontezza di buttarle addosso la giacca che in maniera automatica ha chiuso. I due padri davanti a me guardavano le figlie saltare alla balaustra, rassegnati ad averle perse, dopo essersi dimenati affannosamente nell’ultimo video, hanno gridato senza voce i nomi delle ragazze, producendo versi sconnessi per convincerle a seguirli. Mi sono girata a spiare le loro reazioni: potrebbero essere ancora lì.

La felicità. Un concerto rock di musicisti giovani e appassionati, seguiti principalmente da un pubblico di ragazze e ragazze giustamente scatenati, è un’esperienza in grado di restituire o togliere 20 anni in poche ore. Condividere il viaggio nel tempo con i propri figli suscita emozioni che spossano, arricchiscono, portano inebetiti alla meta. Per cui di tutti i consigli semiseri che mi sento di dare, il principale è: non dimenticate che la felicità passa anche da questi momenti. Ha bassi, rulli, toni, movenze a cui dobbiamo abbandonarci senza paura, perché non c’è sensazione più esaltante di mostrare alle nostre creature  che siamo diversi da loro, ma ugualmente, per una sera, fuori di testa insieme.  

Per tornare a casa abbiamo preso al volo un taxi mentre ci avviavamo a piedi, dividendolo con una coppia di ventenni bolognesi: vagavano gaudenti, ma confusi. Ho pagato io perché così ho fregato veramente l’anagrafe: dai 45 ai 20 e ritorno in cinque ore nette.

L’identità della memoria

“Sono proprio felice, oggi: la stanchezza delle miei gambe ha trovato un senso in più.” Ha commentato mamma, dopo aver firmato la proposta per la Legge di iniziativa popolare contro la propaganda fascista e nazista.

Questa mattina, per la prima volta dopo tanto tempo, io e Anne siamo uscite con nostra madre, non per accompagnarla a fare terapie, controlli o visite: siamo andate negli uffici del Comune per apporre la nostra firma all’elenco delle 50 mila necessarie a portare in Parlamento la LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE CONTRO LA PROPAGANDA FASCISTA E NAZISTA.

Depositata in Cassazione il 19 ottobre del 2020 dal Comitato Promotore, presieduto dal Sindaco di Stazzema, Maurizio Verona, la proposta è finalizzata a disciplinare pene e sanzioni verso coloro che attuano propaganda fascista e nazista con ogni mezzo, in particolare tramite social network e con la vendita di gadget. C’è tempo fino al 31 marzo 2021 per firmare.

Noi non vedevamo l’ora di farlo.

Il sole ha illuminato la fierezza dei nostri occhi mentre compivamo un gesto che ci ha fatto sentire l’orgoglio della cittadinanza e dell’appartenenza alla democrazia. Ci ha colto l’emozione di mostrare, alla sorridente impiegata, il documento, per registrare la volontà di non tacere l’impegno a difendere la storia di libertà e bellezza che ci ha donato chi ci ha preceduto.

“Sono proprio felice oggi: la stanchezza delle miei gambe ha trovato un senso in più” ha commentato mamma. Non si può nascondere l’amarezza per la necessità di lottare, nuovamente, per affermare le basi della società che sembravano acquisite.

Nei mesi, nei quali, improvvisa, ha colto tutti l’epidemia, si cantava Bella Ciao dalle finestre e si applaudivano gli eroi civili nelle corsie e nelle autoambulanze, per mostrarsi uniti dalla solidarietà, dalla riconoscenza, dall’attenzione ai più fragili. Ora, invece, nonostante, si sia ancora avvolti nell’incubo, molti hanno acuito un senso di rabbia e di cecità, accentuato dall’egoismo della paura che rende facili prede di propagande oscurantiste.  L’urgenza della attualizzazione delle norme già esistenti, inserendo l’attenzione alla diffusione di simboli, messaggi di odio e attacchi che si rifanno al nazi fascismo, attraverso i social media, è dolorosa cronaca.

Solo ieri, il paese ringraziava l’ulteriore testimonianza generosa della Senatrice Liliana Segre, promotrice della campagna di vaccinazione della Regione Lombardia, tra le prime a farsi iniettare la dose. Già nel pomeriggio, sotto la bellissima foto che la ritraeva proprio insieme all’operatore sanitario, si è riversato un fiume di calunnie antisemite che non meritano di essere citate. E’ fondamentale, però, che gli autori non restino impuniti. Dal 2019 la senatrice che porta la sua memoria viva nelle scuole e riempie di senso gli scranni della politica, è sotto attacco di chi, ignorando o peggio conoscendo quanto ha subito, ne insulta l’integrità passata e presente. Colei che ha affrontato l’orrore di Auschwitz ha saputo rispondere con forza invidiabile, ma non è accettabile che non si utilizzi ogni mezzo per mostrare quale sia il volto, quali le parole e la storia che si vogliono trasmettere nel futuro.

Sono quelle di Antonella Bundu, consigliera del comune di Firenze. Ieri è stata invitata dal British Institute a tenere una conferenza sul partigiano nero, comunista ed ebreo Alessandro Sinigaglia, organizzatore dei primi Gruppi di Azione Patriottica, fondamentali per sconfiggere il nazi fascismo. Appena ha cominciato a parlare, alcuni haters l’hanno attaccata, inneggiando ad Hitler ed offendendola personalmente, tanto che si è dovuto interrompere il collegamento. Il direttore del British Institute, dopo circa 20 minuti, ha fatto riprendere la diretta, proteggendola da altre invasioni. In perfetto inglese ha pronunciato l’equivalente di “non possiamo darla vinta a quei fascisti”. Lo racconta nei suoi profili social la consigliera, ringraziando chi si è ricollegato e l’ha seguita fino alla fine. Non manca però il rammarico: ”Mi dispiace solo che mia madre abbia dovuto assistere a questo schifo, ma alla fine abbiamo fatto l’incontro che ha avuto, se possibile, un significato ancora più importante.”

Un’altra figlia ha dovuto difendere una madre da pari violenza squadrista. E’ Sara De Benedictis, intervenuta dopo che sua mamma, la giornalista Lia Tagliacozzo, ha subito un raid su zoom, durante la presentazione online del suo libro “La generazione del Deserto”, organizzata dall’Istoreto, l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza, e dal Centro studi ebraici di Torino. In questo caso anche, invece di dare visibilità alla crudeltà anti storica del veleno lanciato sulla piattaforma, è importante che si presti il massimo supporto istituzionale e legale alle parole pronunciate da Sara.

Sono nipote di sopravvissuti alla Shoah, la mia famiglia è stata dilaniata e dimezzata dalle persecuzioni razziali, vivo tutt’ora nella casa dove i nazisti vennero a bussare e a portare via la mia famiglia, compresa Ada. Una bambina dai capelli scuri e il viso dolce, potevo essere io – dice – Sono temi della mia quotidianità. Vivo immersa nella coscienza della seconda generazione. Mia mamma scrive di questo e mio nonno gira per le scuole a parlare di shoah. Sono conversazioni frequenti in casa mia. Ci sono ‘abituata’. Non mi sconvolge parlare dei miei morti. Ma quello che è successo oggi mi ha sconvolta. In altri contesti “non ebraici” mi era già successo di trovarmi in situazioni di tensione e anche di scontro con gruppi fascisti e neonazisti. Questa volta è stato diverso. Questa volta era diretto proprio a me, proprio a “noi”, per il fatto di essere ebrei. Io seduta nella mia stanza ad ascoltare mia madre e questi stronzi sono riusciti in questo modo ad entrare nella mia casa, un’altra volta. Non mi era mai successo. Non così. Non mi hanno mai augurato di finire nei forni. Non davanti alla mia mamma”.

Per chi ancora crede sia anacronistico fermare il dilagare di violenza e ignoranza, in grado di travolgere le nuove generazioni; a chi reputa le priorità siano altre, bisogna ribadire che le soluzioni, anche delle crisi più dure del paese, sono state frutto di una collaborazione basata sulla condivisione dei valori fondamentali della comunità.

La difesa della memoria è cura del presente e indicazione preziosa per il futuro.

A Sant’Anna di Stazzema, il 12 agosto del 1944, vennero trucidati donne, anziani, bambini innocenti, in fuga dai bombardamenti, vittime della barbara e vigliacca violenza nazi fascista. 560 nostri nonni, nonne, madri, padri, fratelli e sorelle, uccisi, lasciando una traccia di vita indelebile nel territorio che li ha visti martiri. Maurizio Verona, sindaco del comune che ne celebra e difende il ricordo, ha lanciato la raccolta firme perché quanto accaduto non sia mai dimenticato, mentre i simboli delle più fosche pagine della follia contemporanea siano rimossi per sempre e non possano più essere utilizzati come strumento di oppressione delle coscienze.

Serviranno 50 mila firme per portare la legge in Parlamento: basta recarsi nei comuni di residenza o ai banchetti organizzati nel rispetto delle norme di sicurezza.

Questa mattina con mia madre e Anne abbiamo apposto le nostre, è stata una bella giornata di sole, impegno e libertà.

Tutte le informazioni sono sul sito www.anagrafeantifascista.it o si possono ricevere, scrivendo a info@anagrafeantifascista.it.

La memoria è la nostra identità: difendiamola insieme.

Cuccioli da salvare

Non faccio parte di nessuna associazione, ma in tanti mi conoscono: sanno che se c’è un animale in difficoltà, arrivo e me ne occupo. Così ho fatto anche domenica mattina.

All’alba di domenica, in un terribile incidente stradale sulla A14, all’altezza di Pesaro – Cattolica, hanno perso la vita, insieme all’autista di uno dei tir coinvolti nello scontro, due volontari dell’ENPA, Elisabetta Barbieri e Federico Tonin. Erano staffette: accompagnavano cani e gatti dal sud verso le famiglie adottanti al nord. Viaggi che avvengono quotidianamente per unire il paese attraverso l’amore per gli animali. Elisabetta lo faceva da anni, per Stefano era la prima volta. Per onorare il loro impegno, domenica sono intervenuti altri volontari e staffette: si sono presi cura dei gatti e dei cani, prima che scappassero o andassero incontro ad inevitabili conseguenze. Tra loro, tra i primi ad arrivare c’era Patrizia Pagliero. La sua traccia, pubblicata a giugno, raccontava di una quotidianità condivisa con amici miagolanti e abbaianti, soprattutto con quelli che hanno maggior bisogno di attenzioni. Non poteva mancare il suo supporto: come sempre, in prima persona, senza chiedere altro che la gioia di vedere in salvo i cuccioli. Patrizia, che conosceva bene Elisabetta, ha accettato di tracciare le 36 ore di paura, fatica e speranza che ha dedicato alla generosa staffetta di Rho.

L’emergenza è finita ieri sera: con Agnese abbiamo ripreso Isabel, la cagnetta che avevano erroneamente mandato al canile di Pesaro e controllato come stessero le cucciole di maremmano, Orsetta e Masha, ricoverate dal veterinario a Gradara.

36 ore di impegno senza sosta per cercare di salvare tutti i cuccioli: cani e gatti, feriti e spaventati durante l’incidente. Mi hanno chiamato alle sei di mattina di domenica per informarmi di quanto era accaduto: non ci ho pensato nemmeno un minuto. Ho infilato un paio di pantaloni a fiori; per fortuna mi sono ricordata di prendere il giubbotto; ho chiuso solo la porta della camera di letto, ma non quella di casa. Dopo venti minuti ho raggiunto il tir, fermo all’ingresso dell’autostrada, dove gli eccezionali camionisti spagnoli avevano offerto rifugio ai cuccioli. I gatti vagavano nella cabina; i cani erano nella paglia del vano posteriore nel quale erano stati trasportati dei cavalli dall’Andalusia a Matera.

Non faccio parte di nessuna associazione, ma in tanti mi conoscono: sanno che se c’è un animale in difficoltà, arrivo e me ne occupo. Così ho fatto anche domenica mattina. Non c’era tempo da perdere. Con me, oltre a tre guardie zoofile dell’ENPA e agli uomini della stradale, Agnese Sgroia insieme ad un’altra volontaria, arrivate da Bologna e i due ragazzi del tir. Meritano veramente di essere menzionati e ringraziati per la disponibilità, la delicatezza con cui si sono messi a disposizione, offrendoci ore preziose del loro tempo, senza chiedere nulla in cambio. Abbiamo provato a dare loro qualcosa almeno per pagarsi il pranzo: hanno rifiutato.

Il lavoro è stato pesante. Dovevamo parallelamente recuperare i gatti, senza farli scappare, mettendoli nei trasportini e prendere i cani, terrorizzati, nascosti nel letame, per far prestare velocemente le cure a quelli feriti ed evitare contraessero infezioni. Il primo cane che ho preso in braccio era un meticcio di 20 chili con un profondo taglio sulla zampa sinistra. Poi ho sollevato Olivia, la maremmanina di cui non posso dimenticare lo sguardo smarrito e le gengive bianchissime. Abbiamo potuto contare sul supporto della macchina di una coppia che stava andando a Bologna a prendere dei gattini: si sono fermati a Cattolica per aiutarci a portare i cuccioli dal veterinario. Ho chiamato il mio a Gradara: sapevo di trovare qualcuno in clinica per le terapie della mattina. Mi ha risposto Leonardo, già pronto ad accogliere i cani, raggiunto subito da Marco Viviani, il direttore sanitario.

Non ho contato quanti cuccioli siano passati dalle mie braccia, ma di ognuno ricordo la paura e la fiducia con cui si affidavano alle nostre cure. Pit con il muso nero sbiancato dal terrore mi ha fatto venire in mente la mia Glenda, morta a febbraio per un tumore: un colpo al cuore.

E’ stato fondamentale far visitare il prima possibile gli animali , forse se avessimo potuto contare su un numero maggiore di forze in tal senso, avremmo salvato anche il cucciolo che, purtroppo, è morto la notte di domenica a casa della famiglia adottante. E’ andata meglio alle altre tre maremmane: Olivia è partita verso Bologna con Agnese; Orsetta e Masha sono ancora in clinica perché devono essere sottoposte ad altri interventi.

Sorte diversa è toccata a Isabel. Aveva la museruola perché è un cane fobico, questo è bastato a farla portare al canile dove era stata messa in un box. Siamo andate a recuperarla con Agnese ieri sera: abbiamo trovato un altro ragazzo eccezionale che è riuscito a prenderla e a portarla da noi con la dolcezza, senza traumatizzarla, anzi non mettendole nemmeno la museruola.

Nel frattempo sono stati recuperati tutti i gatti, anche Milo, l’ultimo disperso; sono arrivati altri staffettisti che li hanno portati a destinazione. E’ un impegno che si prende con il cuore senza guardare l’orologio. Se penso ad Agnese: è rientrata domenica notte a Bologna, ha curato i suoi cani, ha lavorato fino alle due e mezzo di pomeriggio ed è tornata con me a Pesaro e poi a Gradara. Così era anche Elisabetta. Ho incontrato varie volte lei e suo marito: quando dal sud portavano i cuccioli verso Milano, si fermavano a lasciarmi quelli che poi io consegnavo alle famiglie adottanti della Romagna. Di solito ci vedevamo all’alba, mi colpiva la cura con la quale mi affidavano i cani: li portavano in braccio fino alla macchina, senza mai metterli in pericolo, lasciandoli in strada. Per Elisabetta non era solo rispetto delle procedure che prevedono ci si comporti in questo modo, ma era amore per gli animali e per il suo impegno. Partiva da Rho per raggiungere la Sicilia, la Puglia, la Campania e ripartire, fermandosi giusto poche ore per riprendere energie. Era rispettata da tutto il mondo del volontariato: i ragazzi che dovevano partire con lei per i prossimi viaggi, ora sono disperati.

Le staffette non si sono fermate nemmeno durante il lockdown. Adesso c’è chi critica ciò che fanno, ma si ricorda poco che riescono, per pochi euro, a salvare cuccioli, gatti o cani più adulti, senza far salire il costo del viaggio sulle famiglie adottanti. Io mi muovo con la mia micra per la Romagna, solo una volta sono andata in Campania: è stato faticosissimo. E’ una stanchezza sempre ripagata dall’amore degli animali. L’anno scorso mi sono ritrovata con 34 micini in casa. Ero quasi decisa a dichiarare che chiudevo per ferie, causa allergia. Mi ha subito dissuaso l’arrivo di una gattina a pelo lungo e dopo poco il ritrovamento di un siamese e un meticcio bianco meravigliosi. Ho faticato a separarmi soprattutto dal bianco che aveva come una linea di kajal intorno agli occhi. L’ha preso una ragazza dolcissima che ha adottato tutti e tre i nuovi arrivati.

Domenica sera sono rientrata a casa alle undici di sera. Aveva piovuto, i miei sette cani avevano scorrazzato tra il giardino e il salotto riempiendolo di fango; nella zona notte, tra la camera e il bagno mi aspettavano invece i nove gatti. Mi sono seduta solo un minuto, poi ho dato loro da mangiare: li ho accarezzati tutti, pensando ad Elisabetta e a chi continuerà ogni giorno a dedicare il proprio tempo libero a queste creature meravigliose, in grado di accendere un sorriso anche dopo una giornata lunga, triste e faticosa.

Oltre le Torri

Storie di Torri lunghe più di un metro”, ovvero parole che si stagliano dall’aria di via dell’Archeologia a raccontare l’eccezionale normalità, per mesi, mancata ad ogni latitudine.

Evocare la realtà attraverso la fantasia in storie di quotidianità eccezionale. A Tor Bella Monaca questa è stata la strategia che hanno messo in atto durante la prima lunga quarantena, grandi e piccini, riuniti dal progetto Storie di Torri lunghe più di un metro. Voluto da Roma Best Practices Award – Mamma Roma e i suoi figli migliori di Paolo Masini; sostenuto dall’associazione Libriamo Torbella, rappresentata da Isabella Cocco  e ideato da Alessandra Laterza, anima di Booklet Le Torri: il risultato di mesi di scambi e confronti, scandite da video chiamate puntuali e sempre attese, è diventato un libro, edito dalla Casa Editrice Efesto.

134 pagine nelle quali si snoda il viaggio immaginario di un’intera comunità: le esperienze di donne, uomini e bambini, forti delle loro identità e di quella del loro quartiere, insieme alla libraia di Torbella, spiccano il volo e riescono a trasformarsi nel racconto di amici, nonni, innamorati, compagni di classe, vissute in ogni angolo del paese e del mondo.

Potere della favola che una volta, anche solo inventata, in una notte di stelle, diventa patrimonio del cielo intero. Le parole si stagliano dall’aria di via dell’Archeologia e dai tetti delle Torri, ma, più spesso, si ispirano a quella normalità che per tre mesi è mancata ad ogni latitudine.

Tanti gli spunti da scegliere, da seguire fino in fondo o da assaggiare poco alla volta, per assaporare la fragranza che il libro imprime alle idee. Espediente contro la “pochite”, malattia che affligge Pio e i cittadini. protagonisti della storia che apre la raccolta: privati della fucina di immaginazione della libreria, riprendono a sognare solo grazie al ritorno della libraia. Potere della carta, collante più forte dello schermo, per famiglie che accendono la luce sul grigio di giornate tutte uguali come accade in “Mino e il libro magico”. “Attenti ai libri” richiama al rispetto che proprio per questo meritano: i testi offesi per i maltrattamenti subiti, attaccano e addolciscono il carattere di bambine capricciose come Zelda. Libri che fanno superare le paure per salire e scendere da un albero: lo dimostra la storia di Claudia e Tommy, “In due è meglio.ì”.

Leggere le “Storie di Torri lunghe più di un metro” apre porte su temi universali, con la leggerezza di chiavi semplici che pure non sempre si riescono a trovare, persi nella ricerca della complessità che deforma anche la bellezza di un’amicizia.

Di amici ce ne sono tanti. I compagni di classe di Marcellino, “fantasmi” nella scuola organizzano un bentornato speciale, pronti a sfidare i rimproveri della preside per rendere più felice il rientro di un amico. Chi non ha avuto l’amica del cuore e quanti vorrebbero averla sempre al proprio fianco? Lory e Giulia con una “Caccia al tesoro” scoprono il segreto di un legame intenso che univa anche le loro madri. Le amicizie che diventano amori dopo aver affrontato le difficoltà reciproche come per Eric e Lucia, avvicinati da “Un vecchio telefono” o Silvia e Luca, insieme sin dalla scuola media nei “Ricordi prima di…”. L’amicizia come grimaldello contro la diffidenza generata dalle differenze che diventano, invece, un dono per tutti: lo è Andy nel “Regalo più bello” e Gobena in “Strada facendo”.

Amici preziosi sono i nonni, protagonisti di molte delle storie: riconquistano il ruolo di guida e compagni di giochi negato dalla pandemia. Roberto a pagina 29 prende un treno con suo nipote Marco, mostrandogli quanto poco importi a volte la meta finale, rispetto al viaggio; mentre da pagina 89, Lara con sua nonna inventa favole per trascorrere giornate indimenticabili nella solitudine condivisa della campagna. E se una nonna rimane sola, può arrivare il gatto Totò a riempirle le giornate.

Dalle storie scritte da Roberto Bragalone, Stefano Cippitelli, Teresa La Neve, Alessandra Laterza, Marina Nasti e Isabella Vinci ( rigorosamente in ordine alfabetico) si sprigionano anche profumi particolari come quelli del cioccolato e della pizza di Martino ( il racconto preferito di mio figlio Luca) e del pane unico del forno di Riccardo.

Da Tor Bella Monaca si viaggia grazie ai petali di un tarassaco o “soffione magico” che fa volare la mitica Ginevra a Londra, tra le Torri si ritorna con le suggestioni di Maternità e di Lavori in corso. Il senso di una comunità in 133 pagine, nelle quali si respirano le ore che l’hanno unita, eliminando le distanze senza infrangere regole, per condividere un’attesa che ha rafforzato l’impegno di un contratto non scritto tra le generazioni. La figlia di Lavori in Corso esclama al padre :“Papà, come sarebbe bella Tor Bella Monaca colorata!” E lui risponde: Noi l’abbiamo costruita, ai colori, pensateci voi.” Lo ribadisce la poesia di Teresa La Neve, nei versi finali: “Mancava il colore per risparmiare, ma c’è tanto amore e l’aria buona da respirare.”

La sfida viene affidata a ragazzi e bambini, citati nella dedica iniziale quali “custodi della memoria e responsabili del futuro del mondo”. Parte con i disegni: in copertina quello realizzato da Francesca Miza del Liceo scientifico Amaldi; in chiusura un album di illustrazioni tratte da fogli e quaderni. Immagini a colorare le storie di un quartiere che è una città e un intero paese, capaci di raggiungere con la fantasia della realtà il cuore di chiunque le legga.

Sul corpo delle donne

Il pensiero a quella ragazza, spaventata ma risoluta, riemerge senza dolore, con rabbia ogni volta che viene messa in discussione, giudicata e resa complessa la possibilità di godere di un sacrosanto diritto, sancito per legge.

Non avevo ancora compiuto 21 anni. La ginecologa fece una domanda precisa, a cui risposi, tentennando. “Ma siamo stati attenti! Mi sembra che il ciclo mi sia venuto lo scorso mese.” Il test, le analisi del sangue: l’ormone HCG confermò che così tanto accorti non eravamo stati e che sbagliavo a non segnare le date sul calendario. Non ho memoria dello stati d’animo di quei minuti nei quali l’avventatezza romantica divenne realtà non gestita, ma ricordo bene l’immediatezza con la quale giungemmo all’unica decisione possibile. Entrambi studenti, innamorati, ma da pochi mesi insieme, senza prospettive chiare: diventare genitori era un’ipotesi che non prendemmo mai in considerazione.

Alle sette di mattina del giorno successivo alla notizia, ero già davanti alla vetrata del sottoscala del San Camillo per prenotare i controlli e seguire i procedimenti per l’interruzione di gravidanza. Con me, mia sorella Anne e la mia amica Nico. Mi muovevo in maniera automatica senza dare peso alle parole: “è alla quinta settimana: ha dieci giorni per pensare, poi fissiamo la data per l’intervento.” La sintesi del ginecologo che fece l’ecografia non smosse alcuna riflessione. Passò il periodo previsto per legge: una leggera nausea, molta stanchezza e la prudenza di non osare mai posare nemmeno un dito sulla pancia. Gli amici del tempo sapevano, ma non affrontarono mai l’argomento: solo uno provò a rimproverarci per essere arrivati a quel punto, senza provocare in me nessuna reazione. Il giorno stabilito impedii a mamma di accompagnarmi: era triste perché sperava che continuassi a difendere un diritto di noi donne nelle manifestazioni, ma non dovessi mai viverlo sulla mia pelle. Anne e Nico mi lasciarono all’ingresso, la seconda parte coinvolta nella vicenda arrivò in ritardo, ma non me ne importò nulla. Entrai con la mia borsetta: una vecchia camicia da notte, pantofole e assorbenti. Non parlai con la mia compagna di stanza, nessuna delle due ne aveva voglia. Mi diedero delle gocce, misero la farfallina al braccio per la flebo di anestetico. “Conta da uno a dieci…” Devo essermi addormentata al sei. Sentii solo delle fitte alla pancia quando mi svegliai. La vicina di letto voltata di spalle.

Mi segnarono un farmaco da prendere per i tre giorni successivi. Tornata a casa, mamma mi abbracciò forte. Mangiai poco e mi riaddormentai. Dopo un anno da quel giorno la mia storia d’amore era finita per un banale tradimento, pertinente con l’età, meno con la mia idea dei sentimenti eterni che poi sarebbe realisticamente e fortunatamente mutata con il passare del tempo e delle esperienze. Mi ritrovai a scrivere un racconto, forse uno dei primi a riempire le pagine con un inizio e una fine precisa. Una donna con un vestito rosso che incontrava un ragazzino con un berretto dello stesso colore ad un bar del Gianicolo. Alcuni dialoghi neanche troppo fluidi e alla fine la scoperta: “ma sei Tommaso? Scusa!”

Sembrava automatico: decidere, ritrovarsi davanti allo sportello della 194 senza tenere uno striscione, sdraiarsi a fare un’ecografia, girando lo sguardo allo schermo, preparare una borsa, contare da uno a sei, stare a riposo un paio di giorni. Non ho mai avuto rimpianti per quanto fatto, ho sempre ringraziato invece chi aveva lottato anni prima, permettendo che potessi scegliere e godere di un diritto, libera di gestire il mio corpo e anche di soffrire silenziosamente, senza alcuna necessità di giustificarmi.

Ho rifatto test e analisi dieci anni dopo: un giorno di ottobre, aspettando l’esito, tremante di gioia. Gian ne dovette ricomprare tre, sbagliavo per la tensione che non uscisse la seconda linea benedetta. Brindammo al livello di HCG nel sangue. Avevamo deciso di avere Viola, di crescerla felice e libera. Nove mesi senza nausea, con lo sguardo brillante e le mani sempre ad accarezzare la pancia. La borsa preparata con cura; Gian in sala parto pure prima che portassero me; mamma, Anne e Nico ad aspettarmi in stanza festanti; giornate successive faticosamente felici.

Il pensiero a quella ragazza di quasi 21 anni, spaventata ma risoluta, riemerge senza dolore, con rabbia ogni volta che viene messa in discussione, giudicata e resa complessa la possibilità di godere di un sacrosanto diritto sancito per legge. Si accende davanti alle campagne violente dei sedicenti movimenti per la vita che riescono a farsi breccia laddove vengono prese decisioni per la collettività.

E’ accaduto nel consiglio regionale delle Marche, la scorsa settimana, quando un rappresentante politico della maggioranza ha motivato il divieto di somministrare la pillola abortiva RU486 nei consultori del territorio, per salvaguardare “il popolo italiano dalla sostituzione etnica”. Oltre la gravissima manifestazione di razzismo, si è impunemente affermato e decretato che le donne “contenitore della futura razza italica”, non possano accedere ad una delle linee guida previste dal Ministero della salute all’interno della legge 194. Si è quindi limitato il diritto ad auto determinarsi, creando un precedente pericoloso. Lo sanno bene le donne polacche che sono scese in piazza, dopo l’approvazione di una legge nazionale che arriva, di fatto, a vietare l’interruzione volontaria di gravidanza. Per ribadire la presunta identità di una nazione si è deciso di speculare sul corpo femminile, definendone il presente e il futuro, senza alcun rispetto per la dignità e la volontà dei singoli.  

In quei cortei so che c’è quella ragazza di quasi 21 anni e vorrebbe partecipare anche la donna che è diventata, la madre che prova a crescere una figlia ed un figlio nel rispetto degli altri, nessuno escluso.

Dovremo essere in tanti, donne e uomini, insieme, a chiedere che venga abolita la discriminazione legislativa della regione Marche e ad incitare l’intervento della Comunità Europea contro il governo polacco. A chiedere scusa a sorelle, nonne, madri, figlie per chi ancora si permette di poter giudicare, teorizzare, speculare e decidere sul loro corpo.

Non sono solo sassi

“Sembra essersi trasformata in un’altra strategia minima per incontrarsi e scambiarsi un sorriso, oltre la mascherina e senza paura di contagi. Non ha costi elevati, né richiede talenti speciali, ma rivela un piccolo potere necessario.”

Ci sono quelli colorati dai bambini, alcuni hanno impresse frasi celebri, altri ancora sembrano vere opere d’arte. Si possono trovare davanti ad un portone, dietro una statua, al parco o su una panchina. Chi li lascia, vuole che rappresentino un messaggio di allegria per chiunque abbia la fortuna di scovarli. Sono Sassi per un sorriso. L’iniziativa, nata dall’esperienza personale di Heidi Aellig, casalinga svizzera, da 25 anni in Italia, è partita con un piccolo gruppo per le strade di Recanati e una diramazione a Pescara, dove vive sua figlia, Andrea. Si è poi diffusa attraverso i social in altre cittadine delle Marche. In pochi mesi, la pagina che promuove e mostra i sassi creati e ritrovati, ha raggiunto quasi 6000 iscritti e pare superare i confini nazionali nell’interesse e nei tentativi di replica. Alla squadra famigliare si è aggiunta l’amica Laura Biagiotti, ma Heidi ci tiene a ribadire che le regole e l’obiettivo soprattutto, non cambiano: scansare i pensieri tristi che affollano la mente in questo periodo, disegnando e condividendo quanto realizzato con altri, sconosciuti, donando loro una gioia inattesa. Per partecipare bastano un sasso, un pennello, colori acrilici, un fissante e fantasia.

La traccia: sassi colorati

“Ho cominciato a settembre 2019 in un gruppo svizzero, ma c’era un altro obiettivo: si voleva far viaggiare i sassi da una città all’altra per costruire un percorso, impedendo a chi li trovava di poterli portare a casa. Io invece volevo che il sasso rimanesse a chi riusciva a scovarlo come un piccolo talismano di gioia. Per dare questo altro scopo alle pietre colorate, ho creato un piccolo gruppo: io a Recanati, dove vivo da un anno e mia figlia Andrea a Pescara. Era difficile farci conoscere per cui abbiamo organizzato degli eventi come cacce al tesoro, promossi sulle pagine social del mio Comune. Hanno riscosso un inaspettato successo, facendo aumentare il numero degli iscritti al gruppo.”

“Sono una casalinga con tanti hobby, ma non avevo dipinto prima di cominciare a farlo sui sassi. E’ stata una terapia in questo periodo nel quale continuo a sentire una grande paura per il virus e le notizie mi arrivano amplificate nella capacità di creare ansia. Uno stress che so essere condiviso con tanti, allora l’idea: se bastasse un piccolo sasso a veicolare un motivo di buonumore! In giornate che sembrano uguali e angosciose, trovare un disegno realizzato da altri accende un sorriso da far proseguire anche in casa. Nulla di straordinario, eppure da 400 membri ora siamo 5800 e ci siamo allargati in altre città. In due mesi, da che ero solo io a preparare le mie opere in pietra, sono diventati tanti a considerarlo un passatempo, buono anche per unire le famiglie, soprattutto i bambini, ma non mancano i sassi dei nonni.”

“Sembra essersi trasformato in un’altra strategia minima per incontrarsi e scambiarsi un sorriso, oltre la mascherina e senza paura di contagi dannosi. Non ha costi, né richiede talenti speciali. Ognuno può imprimere il proprio messaggio da trasferire con un disegno o un colore per poi rallegrarsi di vederlo arrivare a chi continua a guardare con attenzione le strade in cui cammina alla ricerca di emozioni.”

“Non mi aspettavo il successo che stiamo ottenendo: ci stanno seguendo anche da fuori Italia. L’importante è non perdere di vista l’obiettivo: chiediamo che si rispettino delle regole per continuare a donare un semplice sorriso che così semplice non è, senza complicare anche questo spazio di libertà e gioia condivisa. Ringrazio l’amica Laura Biagiotti, che mi aiuta come moderatrice. Dietro le quinte mi continua ad aiutare tantissimo mia figlia Andrea e mi sostiene molto il mio compagno, Lorenzo Latini.”

“Ad alcuni sassi sono rimasta affezionata e li conservo, ma la vera soddisfazione è vedere i post di chi pubblica la foto del ritrovamento. Chiediamo il più possibile di lasciare una sigla identificativa, perché il grazie più bello, è la felicità del momento di chi lo trova.”

La traccia volante: Sorridete sempre!

La memoria illumina il buio

Le parole sono tracce fondamentali per testimoniare che l’orrore c’è stato. La voce dei testimoni è eco nella nostra anima. Anne ha disegnato l’indicibile per chi non l’ha vissuto. La luce deve rimanere accesa sempre.

La ricerca per conoscere il passato è linfa per il futuro. Non si smetta mai di conoscere e trasmettere per evitare che possa accadere ancora.

La storia è memoria che vola e sopravvive alle tenebre.

Finalmente in classe!

“Ho detto ai ragazzi: “vi autorizzo a farmi urlare “Basta!”, fino a quando proprio non ne posso più della vostra confusione che è ripresa reale alla vita.” Nella gioia del ritorno a scuola mi sembra squisito anche l’orribile caffè della macchinetta.”

Liceo Artistico Ferruccio Mengaroni di Pesaro

Essere adolescenti, dal 2019 ad oggi, ha perso un tassello fondamentale: la condivisione dei banchi, delle ansie da interrogazione, dei successi e dei timori per verifiche e voti, dell’allegria della ricreazione. Ha assegnato loro un segno distintivo dell’era digitale: la Didattica a distanza. Lentamente la maggior parte degli istituti italiani si sono dotati dei mezzi per raggiungere alunne e alunni nelle stanze, in cucina, in spazi stretti o ampi saloni, con il segnale perfetto o ad intermittenza. I professori si sono aggiornati, anche i più restii, si sono adeguati a dialoghi veicolati da schermo e tastiera. La considerazione mediatica sui ragazzi è passata dalla superficiale immagine di sdraiati alle evenienze ad eroi civili per la resistenza alla perdita della convivialità; sugli insegnanti si sono concentrati strali di genitori e altre categorie professionali per dipingerli come passivi esecutori in circostanze che pure garantivano stipendi e comodità. Rare le eccezioni che ne hanno evidenziato gli sforzi per continuare a offrire, proprio ad una generazione di possibili asociali, la quotidianità, il presente e soprattutto la prospettiva perduta. Ieri, finalmente, in alcune regioni, tra cui le Marche, gli studenti delle superiori sono tornati in classe, a tentare di riprendersi l’eccezionale normalità. Il paradosso: sono felici di stare a scuola insieme ai loro professori. Una sensazione di gioia condivisa che illumina le parole del racconto di Roberta Magnabosco, docente di italiano e storia nel Liceo Artistico Ferruccio Mengaroni di Pesaro, uno tra gli istituti più antichi della città e più aperti al dialogo costante con il territorio. La sua traccia prova a dimostrare quanto la cultura, respirata e vissuta insieme, aiuti a superare le asperità, donandoci semplici e preziosi esempi di realtà da recuperare.

La traccia: il ritorno a scuola, in presenza.

“Il Mengaroni è stata la mia scuola come alunna: volevo tornarci da insegnante. Obiettivo raggiunto nel 2009, da quando ho iniziato ad essere la prof. di italiano e storia. Amo il mio lavoro, stare con ragazze e ragazzi, ognuno diverso, osservarli, ascoltare dubbi e reazioni, condividere. Ho cercato anche in questi lunghi mesi di Didattica a distanza di mantenere questo principio.”

“E’ stato un periodo faticoso anche per noi professori. Non abbiamo avuto più orari, si è perso il confine tra vita professionale e dimensione privata. Potevano arrivarci mail di compiti da correggere, domande da risolvere, la mattina come la sera, con la sensazione di rimanere comunque sospesi.  Sempre in servizio, ma difficilmente appagati dall’idea di aver concluso un passaggio come accade dopo lezioni intense in classe o verifiche dal vivo. In DAD si ha a che fare con delle facce spesso stanche, annoiate o peggio con le letterine dietro cui si suppone ci siano i ragazzi. Per quanto ci si ingegni, non si riesce ad avere il polso della classe. Le lezioni io le baso sulle curiosità, gli sguardi, le reazioni: gli stessi argomenti possono cambiare a seconda dei miei interlocutori. Non si può ragionare, seguendo la logica dell’imbuto in cui far passare argomenti, per questo si fa il triplo della fatica a cercare di instaurare uno scambio attraverso lo schermo. Ci sono poi le situazioni problematiche dei singoli ragazzi: noi abbiamo dato la possibilità a chi proprio non avesse le condizioni minime per poter accedere alla DAD, di venire in classe. Ho fatto lezioni con un alunno in aula e il resto dei compagni da casa.”

“Ho sentito e seguito le polemiche che tendevano a descrivere gli insegnanti come privilegiati che potevano lavorare in tutta tranquillità. Chi fa questo mestiere con passione non ha mai goduto di alcun beneficio da questa situazione. Non è stata una pacchia decidere come valutare, come organizzare gli argomenti, come verificare l’apprendimento di chi riesce a seguire e chi non. Nell’incertezza ci siamo dedicati senza limiti, dando la disponibilità a rispondere anche durante i giorni di festa o a notte inoltrata.”

“Ho ricevuto l’ulteriore conferma di come il tempo della scuola sia fondamentale per scandire le giornate dei ragazzi: perderlo, li disorienta. Noi abbiamo garantito che almeno potessero proseguire nei laboratori, per noi cardine della didattica. Ogni 15 giorni avevano a disposizione, in sicurezza, questi spazi per portare avanti una parte dei progetti.”

“Nonostante ciò, appena abbiamo saputo che si poteva tornare in classe, insieme, ci siamo emozionati. Eccitati, sia noi professori, sia loro alunni: come se fossimo al primo giorno di scuola. Abbiamo deciso di far tornare le classi intere in presenza, con una rotazione: tre giorni metà del Liceo, l’altra in DAD e viceversa. Abbiamo spazi grandi, possiamo farlo e non vedevamo l’ora. Dopo aver discusso anche tra noi insegnanti nel collegio docenti abbiamo concluso che per i ragazzi sia importante immaginare di non avere davanti un’intera settimana scolastica da casa, ma pensare che si possa spezzare, alternando giornate in presenza.”

“Ho detto ai ragazzi vi autorizzo a farmi urlare “Basta!”, fino a quando proprio non ne posso più della vostra confusione che è ripresa reale alla vita. Nella prima, sono stati più moderati nel raccogliere l’invito, ma mi hanno dedicato un’attenzione estrema. In terza, l’imperativo, è stato recepito. Abbiamo trascorso ore meravigliose all’insegna del: “Chiacchieriamo, facciamo battute, ridiamo, ritroviamoci!”

“Ha prevalso, però, la voglia di programmare. Hanno manifestato il bisogno di sapere che cosa accadrà durante la settimana: quali lezioni riprenderemo; quali film vedremo; a quali progetti daremo seguito insieme. Vogliono stare a scuola. Ho vissuto direttamente la frustrazione di mio figlio che frequenta la quinta liceo nel vedere uscire i fratelli più piccoli, mentre lui rimaneva a casa, davanti al suo computer.”

“In tanti nel nostro liceo arrivano da Fano o dalla Romagna, prendono pullman e treni: nessuno si è lamentato dei trasporti. E’ normale ci sia qualcuno che deve riprendere il via, ma sono sembrati quasi tutti felici e nessuno preso dal timore che si possa fermare di nuovo la normalità.  Noi insegnanti siamo più spaventati da eventuali chiusure ulteriori, anche se questi giorni voglio godermi la gioia del ritorno. Finchè si può, stiamo in classe insieme. Mi sembra squisito anche il caffè della macchinetta, di solito orribile.”

La traccia volante: ”Ragazzi alzate la voce, perché così non vi sento!”

Ne parliamo in sezione

Non sono mai stata iscritta al Partito Comunista, ma ne ho respirato la storia e vissuta l’eco quando, a 21 anni, sono diventata la segretaria della sezione dei DS di Trastevere. Le tracce di quel periodo di formazione politica, professionale, umana sono in me ogni volta che non mi arrendo all’indifferenza, avvertendo forte la nostalgia di una comunità con cui arrabbiarmi, confrontarmi, sorridere e nella quale trovare conforto.

Ne parliamo in sezione!” Dai 19 ai 27 anni è stata la forma di saluto da me più utilizzata. Via Luigi Masi,7: un’anticamera, un salone con un piccolo bagno, raggiungibili da una scala, facendo attenzione a non sbattere la testa alla porta d’ingresso. Era la sezione del PDS di Trastevere diventata poi DS, nella quale sono entrata per la prima volta, nel 1997, curiosa, per partecipare ad una iniziativa con Walter Veltroni, accolta dall’ingegner Santuccione, segretario locale del tempo. Qui, davanti alla imponente tela di Mario Schifano, dedicata a Gian Maria Volontè, donata ai compagni, ho svolto la mia formazione umana, politica e professionale, contando su giovani e anziani maestri.

Ci ho pensato tanto ieri, leggendo i ricordi di chi ha potuto vivere appieno la storia del Partito Comunista italiano o ne ha revocato vicende strettamente connesse. Io non ho potuto, per motivi anagrafici essere iscritta o avere tessere del PCI, ma in via Masi, ho avuto l’opportunità, unica, di respirarne l’eco; di ascoltare la voce e ricevere gli insegnamenti di chi aveva contribuito a fondarlo e distinto il percorso; di fare parte di una comunità di eredi nei valori e nella quotidianità.

Il senso del mio fare politica era racchiuso nella miscela che determinava il mio ripetere insistente, quasi un mantra “ne parliamo in sezione!”.

Ne parliamo in sezione!” Prima in religioso silenzio, poi attendendo con ansia il turno di interventi via via meno stentati, allenati alla scuola di dialettica di chi riusciva a contenere soluzioni strategiche e conclusioni efficaci in poche parole. Non senza abbeverarsi di lezioni di storia, sociologia, satira, affabulazione istrionica, oltre i 10 minuti di tempo, impossibili da interrompere.

Ne parliamo in sezione!” con Bice Chiaromonte, Luciana Ribet, Bruno Trentin, Renato Nicolini, Saverio Tutino, ma anche con Andrea, Raffaello, Carla, Ilaria, Antonio, Nicola, Riccardo, Rina, Nello.

Ne parliamo in sezione!” delle crisi internazionali, delle guerre, dei terremoti: del modo di costruire un parere articolato e soprattutto di offrire piccoli contributi concreti alle vittime più deboli. Una delle prima iniziative a cui partecipai fu una raccolta di indumenti da mandare in Kosovo. Arrivarono tanti pacchi da smistare. Tra questi, un pomeriggio di sabato, ne consegnò uno grande, personalmente, un compagno alto ed elegante. Entrò nel salone, poi tornò da me, congelata alla scrivania all’ingresso, mi guardò:  “Ma sei da sola compagna? Brava, bisogna dare il proprio contributo. Ne approfitto per fare la tessera: sono Alfredo Reichlin.”

Ne parliamo in sezione!”, quando si accendeva la discussione che poi avrebbe portato ad ulteriori divisioni. Nessuno si alzava fino a notte: stremati noi più giovani, venivamo rinfrancati dalla pizza, offerta proprio da chi non aveva mollato la presa fino all’ultima virgola.

“Ne parliamo in sezione!”, non appena attaccarono le Torri Gemelle. La televisione si vedeva sfocata, ma non importava: eravamo lì, insieme, a condividere lo sgomento.

Ne parliamo in sezione!” se si era vinto o ancora di più quando si era perso: “Assemblea degli iscritti, per dibattere sulle ragioni della sconfitta”.

“Ne parliamo in sezione!” per costruire, dal municipio al Parlamento, perché tra i compagni, senza distinzioni, c’erano consiglieri, presidenti, deputati e senatori, pronti a raccontare quanto accadeva e a portare le nostre istanze, anche quelle del più arrabbiato degli Elios Pradò o Marcello Varone.

Ne parliamo in sezione!” il sabato e la domenica del voto, prima, però si pranzava da Rina. La porta della casa di Vicolo del Cinque rimaneva aperta per servire, a turni diversi, amatriciana e fettine panate. Al seggio si rischiava di tornare appesantiti e sonnolenti, per questo, nel salotto della nostra mitica compagna Del Pio, si gestivano pure le consegne pomeridiane e serali dei litri di caffè necessari. “Quello che il partito mi chiede, io fo’ ”, era quanto ripeteva Rina, includendo nella forma tronca del verbo il sostentamento dei rappresentanti di lista.

Ne parliamo in sezione!” dei problemi del paese, senza tralasciare quelli personali, in un intreccio che non pareva mai incoerente. Mi sono innamorata in sezione, ho festeggiato compleanni, ho stretto amicizie durature, ho pianto lacrime di rabbia e di delusione, acceso emozioni e sorrisi che porto ancora dentro come luci.

“Puoi venire a casa a portarmi la tessera?”. In Via dei Riari, una delle strade più eleganti del rione, a ridosso dell’Orto Botanico, Saverio Tutino mi accolse in un appartamento dove libri e foto riempivano scaffali e muri anche della cucina. Tra le ore più preziose del mio percorso di segretaria di sezione, ci sono quelle trascorse ad ascoltare le memorie dei suoi viaggi in Sud America.

Ne parliamo in sezione!” del presente e del futuro di ognuno di noi che avevamo appena vent’anni. “Stai provando a pubblicare un libro su un pentito di mafia? Ti aiuto io!” Dal momento in cui capì le mie difficoltà di giornalista appena affacciata alla professione, con una materia così più grande di me, il professor Enzo Ciconte, è diventato un faro. Il mio primo saggio è uscito e ne sono seguiti altri sotto la sua generosa guida.

Ne parliamo in sezione!” di sogni che si possono realizzare, come creare e distribuire un giornale, con l’ardire di chiamarlo “L’Unità di Trastevere”. Eravamo una redazione di tuttofare condotti per mano, penna e strigliate in francese, dalla maestra Danielle Lantin.

Ne parliamo in sezione!” e i giorni della settimana non bastavano per il calendario delle attività: il lunedì mamma apriva per fare le tessere; martedì c’era Carla con lo spazio dell’arte; mercoledì sera il cineforum con Antonio; il giovedì i corsi di informatica di Lorenzo; il venerdì le riunioni del giornale; il sabato in piazza a fare volantinaggio; la domenica le partite della Roma.

Ne parliamo in sezione!” quando, non senza la paura della sfida e del confronto con la storia, mi elessero segretaria: provai l’intervento per ore, persino con un’amica psicologa, per poi pronunciare solo un sentito “grazie”.

Ne parliamo in sezione!” dopo aver salutato un compagno o compagna che ci lasciava. Le cerimonie si spostavano, solo per motivi logistici, alla Casa delle Culture di Via di San Crisogono.

“Ne parliamo in sezione!” per risolvere dubbi. “Che dite, accetto e vado a dare una mano a Botteghe Oscure?”. Un’intera campagna elettorale nel palazzo dove si è costruita la storia, a correre per le scale con i comunicati stampa come se fosse normale, per poi sfogare lo stupore, il senso di inadeguatezza o i piccoli successi nel bar di via dei Delfini con Vezio e Maria, altri preziosi iscritti.

Ne parliamo in sezione!” davanti allo stupore dei pochi amici del tempo non tesserati, colpiti dalla gratuità del mio impegno mentre montavo gazebo, trascorrevo serate a redigere interventi, dedicavo domeniche e giornate di festa a tenere aperto “il presidio del partito nel territorio.”

Ne parliamo in sezione!” nel momento in cui comunicai: “Accetto il lavoro, ma mi sa che dovrò lasciare la segreteria.” Lo confessai proprio all’ingegner Santuccione, il primo che mi aveva accolto e colui che aveva voluto fortemente che assumessi quello che era stato il suo ruolo. Lo struggimento unito alla consapevolezza di un nuovo percorso da aprire, mi spinsero a decidere. Ironia della sorte, quella volta, ne parlammo durante uno dei primi direttivi che si svolse nella nuova sede in cui si trasferì la sezione, a pochi passi da via Masi. Bice mi guardava come sempre severa, fino ad addolcirsi, quando ammisi, con la voce rotta: “di aver potuto compiere il miglior percorso di formazione che nessun altra università mi avrebbe garantito. Seppure per certi versi arrabbiata e sconfitta, ringraziavo dal primo all’ultimo dei compagni per avermi aiutato a realizzarlo.”

Non sono stata iscritta al Partito comunista, ma ancora oggi, a distanza di quindici anni dall’ultimo direttivo, mi sento di essere grata all’eco, alla voce, agli insegnamenti di chi aveva contribuito a fondarlo e ne aveva distinto il percorso: alla comunità di eredi nei valori e nella quotidianità.

Preda di una nostalgia, acuita dal periodo, non so cosa darei per poter tornare a parlare in sezione con Alfredo, Bruno, Saverio, Bice, Carla, Rina, Nicola, Raffaello, Riccardo, Ilaria, Enzo, Elena, Nello e i quasi 300 iscritti di via Luigi Masi, 7.

Ridisegnare gli Stati Uniti d’America

“E’ un nuovo giorno per l’America.” Queste le prime parole pronunciate da Joe Biden, oggi, 20 gennaio 2021, giornata del suo insediamento come 46 ° Presidente degli Stati Uniti. La matita di Anne, ha impresso sul foglio, quattro disegni per raccontare ciò che è accaduto e ciò che sarà dall’altra parte dell’Oceano.

E’ iniziata l’era Biden. Al Presidente, appena insediato, il compito di cancellare l’eredità di chi ha indebolita la forza democratica degli Stati Uniti e ricostruire. L’obiettivo riaccendere il sorriso e la fiducia nel futuro, oltre alla Statua della Libertà, al maggior numero di cittadini del mondo.

“Cercheremo di capire come risolvere i problemi di ognuno di noi. Finire la guerra che ci mette gli uni contro gli altri. Aiutarci. Se riusciamo a fare questo, il nostro paese diventerà ancora più prospero e forte. Offriremo il potere del nostro esempio.” Joe Biden, Presidente degli Stati Uniti d’America.

“Abbiamo visto una forza che frantumerebbe la nostra nazione invece di unirla.” Amanda Gorman, poetessa.

“Siamo al Campidoglio, davanti ad un luogo sacro. Qui, dove pochi giorni fa è avvenuta tanta violenza che, giuro, non succederà più! Gli Usa hanno molto da fare in questo inverno di pericolo, molto da riparare e da risanare.” Joe Biden

“Ai figli dei nostro Paese, indipendentemente dal vostro genere, abbiamo un messaggio chiaro per voi: sognate con ambizione, guidate con convinzione e guardate a voi stessi in modi che forse gli altri non vedranno, ma semplicemente perché non lo hanno mai visto prima. E noi vi applaudiremo ad ogni passo”. Kamala Harris, Vice presidente degli Stati Uniti D’America.

“Evitiamo la disperazione, solamente insieme possiamo fare cose importanti. Ci metteremo alla prova e saremo sempre in grado di rialzarci. Saremo giudicati per come riusciremo a risolvere questa cascata di crisi. Abbiamo un obbligo verso i nostri figli: dare loro un mondo migliore. Scriviamo, uniti, il nuovo capitolo della storia americana e del mondo.” Joe Biden

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