Questa sera su Rai due iniziano le puntate della terza stagione della serie, ideata da Cristiana Farina. Gli affezionati dalla prima, come chi scrive, le hanno già viste tutte e dodici su Rai play, bramando che al più presto ne vengano realizzate e trasmesse anche di più per la quarta. Ecco perché è necessario non perdere nemmeno una scena.
“Appiccio n’ata sigaretta
Allà ce sta mammà che chiagne, nun dà retta…”
Poche note, le prime parole e l’inno di ‘O Mare fore avvolge nelle trame delle storie che andrà a sottolineare. La musica traina nel microcosmo distante e intriso di realtà dell’IPM di Napoli. Dialoghi, silenzi, sguardi e suoni mettono lo spettatore al fianco dei protagonisti per soffrire i dolori, sfidare le paure, condividere le emozioni e nutrire le speranze. Filippo, Carmine, Nadiza, Silvia, Viola, Edoardo, Pino, Rosa diventano ‘o chiattillo, ‘u piecuro, la zingara, la spesina, ‘o pazzo, soprannomi che sono marchi di vita, con cui inevitabilmente si finisce per identificarli, togliendo la valenza negativa, mantenendo la famigliarità del richiamo.
La serie Rai, ideata da Cristiana Farina è alla terza stagione, finalmente ottenendo il meritato successo che si deve ad un lavoro intenso di scrittura dei personaggi, direzione e interpretazione. La chiave sta in una miscela in cui gli occhi e i sentimenti si perdono e si ritrovano.
Chi pensa di vedere l’ennesima indagine sul disagio giovanile di una generazione preda dei miti della criminalità, narrata secondo la retorica del bene e del male in un clima di desolante rassegnazione o irreale risoluzione, viene spiazzato da un registro che non vuole innescare tifoserie, basate su abusati luoghi comuni.
Prima di tutto c’è Napoli, incantevole e maledetta protagonista, mostrata nei suoi angoli meno noti, dalle calette baciate dal sole, alle metropolitane scintillanti di arte; dalle terrazze affacciate sul dipinto del panorama ai cunicoli sotterranei nelle viscere della città. Non mancano i bassi desolati, i vicoli in cui si spara e la sontuose case dei boss, incastonate tra degrado e oro, ma si intrecciano in una mappa in cui si comprende come ogni percorso si possa inevitabilmente incontrare in un incessante scambio tra luci e ombre.
Napoli accompagna con le sue atmosfere fino a dentro il carcere, illumina il cortile e spia dalle sbarre con i suoi infiniti cieli di stelle e il sole riflesso nel mare.
Il mare è l’altra via maestra della sceneggiatura e della scenografia.
“Qua c’è ‘o mare fori, Genna’, a Milano no.” Dice Filippo, ‘o chiattillo, studente del conservatorio milanese finito per un assurdo caso del destino a scontare una pena per omicidio nell’istituto, dove in un anno conosce la vita, l’amicizia, l’amore, la sua destinazione, al punto da soffrire quando dovrà lasciarlo. “Tu portatelo dentro” gli risponde Gennaro, la guardia penitenziaria più anziana, mentre scende una lacrima.
Nell’IPM della serie si entra per colpe spesso indirette, causa di esistenze al margine, di famiglie assenti o troppo presenti; per solitudine o per emulazione, ma dentro nessuno viene giudicato colpevole: c’è un percorso neutrale costruito dalle ore precedenti l’arresto al momento in cui si svela la trama. La scrittura vale per i detenuti, come per gli educatori, per la direttrice e per il comandante.
Lo schema è unico e molteplice, originale, avvincente, abile ad invertire la logica prevista e prevedibile. Se all’inizio stride il fascino trasmesso dai più violenti e rispettati, dopo poche puntate si fa coerente l’emergere di un codice che si modifica. Non ci sono eroi o modelli di riferimento negativi e positivi, ma persone che crescono insieme. Non troviamo identità fisse e inscalfibili. I figli dei boss sono spavaldi, vogliono prevalere, sembrano avere la guerra nel DNA, poi diventano fragili, si spaventano, vogliono scappare da un destino scritto. Proprio in quel passaggio, che purtroppo per molti può essere fatale, si trasformano in esempi, degni di considerazione.
Allo stesso tempo gli adulti, dal personale del carcere ai genitori, si ergono, gridano, si inabissano, sussurrano, piangono e sorridono con “guaglione e guaglioni” che sono spesso i riferimenti in cui ritrovarsi e da cui far ripartire un percorso professionale o di vita.
Non sono i ruoli riconosciuti come i legami scritti nei certificati a guidare i rapporti. Si stringono amicizie che vanno oltre la fratellanza, nascono amori che stracciano le faide o stravolgono gli stereotipi, si scoprono le passioni e si rintracciano quelle perse.
Gli abbracci e i baci sono imprevisti, esplodono nel cuore con l’eguale forza dei proiettili e dei calci mai attutiti per esigenze di copione.
Qui sta l’alchimia di una serie che finalmente ha il meritato successo per arrivare a coetanei di Filippo, Carmine, Rosa, Silvia, vicini o lontani chilometri geografici e culturali delle loro storie.
Nulla va come pensiamo debba andare, ma tutto ci sembra procedere nel verso giusto per comprendere e partecipare ad una realtà vera che ha colori, sfaccettature, umori ed emozioni, gli occhiali limpidi attraverso cui essere osservata.
“Nun te preoccupà guagliò ce sta ‘o mare fore”, il verso cantato, ritmato, gridato da coloro a cui la rassicurazione è rivolta, arriva a smuovere la speranza di ognuno.
Questa sera su Rai due iniziano le puntate della terza serie, gli affezionati (come chi scrive) le hanno già viste tutte e dodici su Rai play, bramando che al più presto ne vengano realizzate e trasmesse anche di più per la quarta. Sarebbe necessario che si portassero nelle scuole i protagonisti, i bravissimi attori e coloro che hanno ispirato la scrittura dei loro personaggi perché c’è bisogno di scavare nelle sfumature del buio per trovare insieme una strada condivisa “‘aret’’e o sbarre o sott’’o cielo”.
In una giornata dedicata all’amore, non riesco a pensare cosa altro possa movere il sole e l’altre stelle: gli occhi dei bambini che, dalle culle di un ospedale alle intercapedini di un muro, sono stati protetti per illuminarci.
Gli occhi dei bambini sono luci sul futuro piene di storie. In due piccole sfere contengono inconsapevole conoscenza infinita e codici unici da trasmettere a chi li riesce a osservare. Solo chi ha forza o incoscienza ce la fa a sostenerne il bagliore. Nei momenti di incertezza costituiscono il segnale per la salita: aperti e sorridenti ,consentono di riprenderla; chiusi o persi, decretano la definitiva resa collettiva.
Del sisma che ha devastato due paesi, abbattendo i resti dell’antichità, mentre ne flagellava il presente, ci sono tante evocazioni del dolore, impresse in video ed immagini, poche riescono a smuovere altre emozioni: sono i fotogrammi in cui si impongono gli sguardi dei piccoli sopravvissuti.
Avvolti dalla terra dell’incubo che li ha ricoperti mentre sognavano, fissano i loro soccorritori, restituendo senso alle loro mani instancabili, ferite e fiere di contenere quell’inatteso dono. Contemporaneamente squarciano chilometri e indifferenza, raggiungendo chi è spettatore attonito o distratto. Sono un lampo di speranza che si offre al mondo, interrogando sull’ingiustizia che si perpetua in alcuni luoghi dove la sopravvivenza è un obiettivo, non solo a causa del terremoto, anche per i neonati. Provano a richiamare attenzione e aiuto.
I bambini estratti vivi dalle macerie di una vita appena iniziata dovranno viverla. Forse non avranno che un frammento di ricordo della tragedia che li ha privati di ogni riferimento, ma si spera che riescano a ricostruire una bellezza possibile anche grazie a chi da loro ha ricevuto la fiducia per non arrendersi.
C’è un video che più di altri esemplifica le parole in un gesto. Non è stato girato a posta, ma è tratto da una registrazione dell’ospedale di Gaziantep in Turchia. Riprende due infermiere nella stanza di terapia intensiva neonatale. E’ il momento della scossa, la sala sembra capovolgersi, chi può dovrebbe fuggire, ma loro si guardano e restano lì, strette con tutto il corpo alle incubatrici per evitare si rovescino.
In una giornata dedicata all’amore, non riesco a pensare cosa altro possa movere il sole e l’altre stelle: gli occhi dei bambini che, dalle culle di un ospedale alle intercapedini di un muro, sono stati protetti per illuminarci.
Non dimentichiamolo domani e il resto dei giorni, restituiamo in minima parte il dono, contribuendo agli aiuti. Condivido le modalità di azione di Nawal Soufi quindi suggerisco una delle strade per farlo. Versare con Causale: “Terremoto” Iban: IT58Y0760101600001037851985 BIC/Swift: BPPIITRRXXX Nawal Soufi Bancoposta Paypal: nawalnoborder2@libero.it
Domani compio 45 anni, ho deciso di provare a rendermi conto della vita e a fermarne frammenti nella scrittura. Non saranno solo post, ma le mie tracce volanti, a volte spero di riuscire a farle incontrare con i racconti di quelle che trarrò dagli altri, parte integrante della mia continua indagine sulla realtà. Intanto, su suggerimento e ispirazione di una regista di sette anni, oggi quasi 14, rifletto su cosa trasmetterei di queste giornate presenti e prossime alla me del futuro. Nulla è più straordinario della normalità.
Qualche giorno fa, Viola ha ritrovato dei video nella memoria del suo telefono. Non so attraverso quali benedetti algoritmi siano tornate indietro le immagini e le voci di una bambina di sette anni che si riprendeva con un potente tablet fucsia per raccontare dettagli della vita presente alla “lei del futuro”. Piglio deciso nella voce e nei contenuti, più oscillante e frenetico nelle riprese, per un anno intero ha riprodotto in quindici episodi, numerati ognuno all’inizio, la quotidianità di una piccola cronista del suo tempo, scandito da abitudini e imprevisti. Personaggio centrale: suo fratello Luca, tre anni, dichiarati a volte dieci, altre quattro, completamente succube della sorella – regista, di cui ripete ogni gesto e parola, smorzato dal ciuccio, un espediente involontario per doppiarlo come un attore dei western americani.
In un pomeriggio che nemmeno Zemeckis avrebbe potuto prevedere, ipnotizzata su un divano, mi sono persa nel passato segreto dei miei figli. C’ero anche io nei video, ripresa mentre vagavo per i corridoi al telefono; evocata dalla voce stanca quando ero necessaria a reggere la “telecamera”, così la definiva Viola, per immortalare le imprese della coppia; in un paio coprotagonista nella realizzazione di scenette. Ero una presenza nella storia in cui protagonisti erano loro, in grado di mostrarmi in pochi fotogrammi e suoni, la realtà della famiglia intera da una speciale prospettiva. Cinque, a volte anche otto minuti, nei quali la narratrice errante presentava la sua cucina, elencando le vicende che avevano condotto ogni calamita al frigo; descriveva gli oggetti “misteriosi”, disordinati sulle mensole della libreria, dalla pietra “presa da mamma e papà sul vulcano quando erano giovani”, alle macchine intoccabili; presentava gli amici che poi erano zii, cugini, nonni e la sua migliore amica Franci, ognuno con un giusto spazio e primo piano per indicare nome e ruolo nella storia .
Viola dirigeva i giochi, le sfide, le coreografie, le canzoni e persino gli scherzi che caratterizzavano mattine e pomeriggi in casa. In uno si sente Luca che le dice che “è bella da na morire”, in un altro “ho sonno, non ce la faccio più a giocare”. Lei, imperturbabile continuava, riportando l’immagine al centro sui suoi occhi più vispi di una centrale elettrica. C’è il video del compleanno di Luca mentre la torta arriva tra i richiami miei, di mia sorella e di nonno Giorgio per fare silenzio e il festeggiato che tenta di gettarsi dal seggiolone; c’è una pizzica sfrenata, ritmata da nonna Lucia, obbligata a inquadrare il perfetto movimento dei piedi della tersicorea nipote; c’è un tik tok ante litteram nel quale, all’ottavo ciack, riusciamo a ricreare suoni e immagini delle “scimmiette che cadevano dal letto”; c’è Valeria Luce minuscola che pensa di essere su un set fotografico e Francesco che non vuole più essere chiamato Chicco. Andiamo alla recita di Natale discutendo io e il papà sull’organizzazione di cene e pranzi per le feste, rassicurando Luca che non avrebbe dovuto fare lezione a scuola, ma cantare le canzoncine, “sarà uno spettacolo eccezionale” sottolineava la speciale cronista.
“Non possiamo più perdere questi video!” Ho esclamato, occhi lucidi, tossendo per le tante risate miste alle lacrime. I ricordi sono battiti più forti nel cuore: squarciano il presente con il passato, lasciandoti nudo e coperto fino alle spalle per muoverti verso il futuro. Ho ritrovato i miei bambini, le mie stanze, la noia piena e l’entusiasmo veloce di anni che non credevo avessimo vissuto come Viola ha riportato. Scherzando, le ho chiesto “ridammi quella bambina, dove l’hai nascosta?”, fingendo di non riconoscerla nella stessa luce indagatoria e ironica con cui continua a scrutare ognuno di noi. Ho stretto Luca che ancora ha delle movenze da Clint, non è un caso che scherzando lo soprannominiamo “bambino”. Ho mostrato alcuni frammenti ad Anne e a mamma, tra tenerezza e malinconia.
Domani compio 45 anni, ho deciso di provare a rendermi conto della vita e a fermane frammenti nella scrittura. Non saranno solo post, ma le mie care tracce volanti, a volte spero di riuscire a farle incontrare con i racconti di quelle che trarrò dagli altri, parte integrante della mia continua indagine sulla realtà. Intanto, su suggerimento e ispirazione di una regista di sette anni oggi quasi 14, rifletterò su cosa trasmetterei di queste giornate presenti e prossime alla me del futuro. Per affrontare il peso, provando a donare anche attimi di leggerezza, condividerò. Continuo ad inciampare, perché penso troppo con i piedi, piccoli, persi, nell’aria, ma qualche traccia rimarrà. Nulla è più straordinario della normalità.
Il giorno dopo il voto, nella capitale si analizza, si festeggia, si riflette. Da dove ripartire? Dal senso profondo dello stare insieme suggerito da chi lo conosce meglio: i bambini. Lo ha impresso in un disegno Alessandro, forte della fantasia realista dei suoi 6 anni da “sanlorenzino.”
Il valore di una comunità risiede nella capacità di sostenersi vicendevolmente, senza discriminazioni di alcun tipo, come pure nella volontà e nel piacere della reciproca compagnia. La condivisione diventa collante: forza per superare i problemi, gioia nel festeggiarne le soluzioni in un equilibrio di quotidiana, conquistata armonia.
Il disegno di Alessandro, un bambino di 6 anni, residente nel popolare quartiere di San Lorenzo di Roma ( non privo di problemi urgenti da risolvere), illumina sul concetto. Nello Lupino, creatore di sinergie e difensore di spazi comuni, caro amico, lo ha inviato, proprio il giorno stesso dei risultati elettorali tanto da far assumere ai tratti di matita un ulteriore significato.
Sul foglio c’è un palazzo che si staglia come un aereo colorato di luce tra le nuvole. Il titolo che l’autore ha voluto dare alla sua opera è “Il condominio del 6° piano prende il caffè prima di affrontare la salita.”
Il pensiero ha superato qualche uscita di raccordo, raggiungendo le pagine vive, raccontate nelle “Torri lunghe più di un metro” dalla libraia Alessandra Laterza, grazie ai suoi acuti piccoli osservatori di Tor Bella Monaca ( periferia, troppo spesso strumentalizzata, in cui vivono, lavorano, sognano cittadini da ascoltare).
Il caffè del condominio di 6 piani ha un profumo che spalanca le porte, entra dalle finestre, raggiungendo le nuvole. I bambini, dal centro alla periferia, sono incredibilmente realisti, non negano la presenza anche di nubi nere, ma pare che proprio volgere compatti verso quella direzione possa aiutare a capire e ad accendere colori.
Probabilmente Alessandro voleva solo disegnare una immagine delle sue quotidiane mattine prima di andare a scuola: inconsapevole, ha lanciato un programma politico.
Oggi, nella giornata in cui si analizza il prevalere di idee che vogliono costruire in questa direzione, dedico la traccia di Alessandro ad Alessandra, perché la salita si supera solo se la comunità non dimentica chi resiste dove le difficoltà sono ancora dure da superare: unire le diverse sfumature fa colorare un solo cielo limpido.
Grazie Alessandro, grazie bambini: ripartire daivostri occhi per il futuro di tutti.
Nel 2019 Carla Di Veroli, pubblicò nel suo profilo questa pagina del libro scritto da sua zia Settimia Spizzichino, unica superstite del rastrellamento di Roma del 16 ottobre 1943. La chiamai per chiederle se potessi condividere anche io nel blog. Fu molto gentile nel darmi il consenso. Purtroppo Carla, che è stata memoria vivente della sua famiglia, ci ha lasciato improvvisamente la scorsa estate. Oggi, forse sarebbe in piazza a unire la sua voce alle tante che si leveranno contro qualsiasi possibile rigurgito di fascismo, di certo non avrebbe tralasciato di ricordare l’importanza di questa giornata nella storia della città, per cui mi permetto di pubblicare nuovamente questa sua traccia.
“Il 16 ottobre, all’alba, ci stavamo svegliando tutti. Bisognava alzarsi presto per mettersi in fila per trovare da mangiare, o le sigarette o qualunque altra cosa. C’era un gran silenzio per le strade, perché con il coprifuoco non si poteva uscire. Mia sorella Ada e i miei cognati scesero al portone ad attendere la fine del coprifuoco. Mio cognato portò con sè suo figlio Davide. A casa restammo io, i miei genitori, le mie sorelle Giuditta e Gentile, la bambina di Gentile, Letizia e la piccola di Ada, Rosanna. Sentimmo passare dei camion e poi dei passi pesanti, passi militari. Pensammo a delle esercitazioni. Non sapevamo che stavamo circondando il Ghetto. All’improvviso la Piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni. Ci affacciammo alla finestra. Vedemmo i soldati tedeschi che spingevano la gente fuori dalle case e l’avviavano in lunghe file verso il Portico d’Ottavia.
“Prendono gli ebrei!” – sussurrò mio padre. Scappare non si poteva, i tedeschi stavamo arrivando in direzione della nostra casa. Allora papà ci fece entrare in una stanzetta e accostò la porta, ordinandoci di stare nel silenzio più assoluto; poi andò ad aprire la porta di casa lasciandola spalancata.
“Penseranno che siamo scappati” – disse piano, tornando.
Forse ce l’avremmo fatta. Ma Giuditta perse la testa quando udì i passi dei tedeschi per le scale. Scappó via, si diresse proprio verso i “soldati”. Se li trovò davanti, si voltò e tornò da noi. Così ce li portò lì, dove eravamo nascosti. Ci fecero uscire dalla stanza, ci dettero un biglietto di istruzioni: avevamo 20 minuti per prepararci e prendere con noi oro, gioielli e cibo per otto giorni di viaggio. Cominciammo a raccogliere quel po’ di cibo che c’era in casa; mi ricordo che presi un pezzo di pecorino e qualche scatola di peperoni acquistati alla borsa nera. Intanto mi rivolsi all’ufficiale che comandava il gruppo e indicai Gentile: “Lei non c’entra, è la donna di servizio. Lasciate che se ne vada con le sue bambine”. Ci credette; fece un cenno con la testa a Gentile, indicandole la porta. Fortunatamente lei capì; prese la figlia e la nipotina e se ne andò.”
Da “Gli anni rubati” di Settimia Spizzichino e Isa Di Nepi Olper.
Ringrazio Carla Di Veroli, nipote di nonna Gentile, figlia di Letizia per aver pubblicato oggi questo ricordo di sua zia Settimia Spizzichino, l’unica donna sopravvissuta al rastrellamento del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 e per averlo reso condivisibile.
La sera stessa dell’assalto fascista alla sede nazionale della CGIL di Roma, un gruppo di dirigenti e di iscritti al sindacato è venuto a mettere a posto quanto era stato distrutto. Alcuni di loro sono rimasti la notte per proteggere quella che viene percepita come una estensione della propria casa. Davanti all’ingresso, 24 ore su 24, si è formato uno spontaneo presidio democratico. Andrea Malpassi, Presidente di ITACA e Coordinatore dell’Area Migrazioni e Mobilità Internazionale dell’INCA CGIL, di ritorno dal turno notturno, racconta perché sia fondamentale l’appartenenza collettiva a difesa della democrazia, soprattutto in questo periodo storico. ( Le foto sono state prese da Collettiva che ringrazio)
“Le immagini del portone divelto, i corridoi distrutti, le stanze messe sottosopra: non si poteva resistere, bisognava superare la rabbia del momento ed andare a sistemare. La CGIL è la casa dei lavoratori, da sempre la sento come la mia. Non è stata una reazione machista, di dimostrazione di forza o di vendetta: sabato sera eravamo in sede per rappresentare i nostri milioni di iscritti. Io sono rimasto fino alle due, poi alle sette di mattina ero di nuovo all’ingresso per la manifestazione, anch’essa spontanea, di solidarietà.”
“E adesso che facciamo?” Ci siamo sussurrati, domenica sera. “Ci organizziamo per rimanere!” Quattro turni di sei ore, divisi tra dirigenti e militanti: la scorsa notte è passato anche il segretario Landini, a sorpresa, per portarci i cannoli caldi. Per noi è normale essere qui: ruoli e generazioni che si incontrano. Principalmente passiamo il tempo, chiacchierando, ragionando su come si possa affrontare insieme la situazione.”
“Questa mattina alle sei ci siamo presi il caffè, dandoci appuntamento al pomeriggio: riunioni organizzative per la manifestazione di domani. Un altro turno mi aspetta domenica, dalle 18 alle 24: ascolterò come se la cava la Roma con la Juve insieme ai compagni. E’ il tifo bello, non quello degli estremisti che si portano a casa il simbolo degli avversari, come hanno fatto i fascisti, appropriandosi, con perizia, del nostro striscione dedicato a Luciano Lama, senza ancora restituirlo.”
“C’è bisogno di stare insieme e rispondere pacificamente con la forza delle idee alla violenza squadrista dell’ignoranza. Si è innescata una gara di partecipazione: abbiamo coperta già tutta la prossima settimana. Si sono creati anche presidi davanti alle sedi delle camere del lavoro territoriali.”
“Ho ricevuto da subito messaggi da diverse delegazioni europee, sconvolte dall’attacco subito. Oggi scenderanno in piazza, in segno di solidarietà, le compagne e i compagni di Ginevra e di Barcellona: a Bruxelles manifesteranno davanti la sede del Parlamento Europeo. Non solo: domani, sin dalla prima mattina arriveranno, fisicamente, i rappresentanti per partecipare al nostro corteo.
E’ netto il messaggio che si debba essere uniti contro ogni forma di attacco alla democrazia. Questo hanno fatto i gruppi di neofascisti che hanno assaltato la Camera dei Lavoratori, proprio nel centenario del 1921, una data che non possiamo e dobbiamo dimenticare: prima delle redazioni dei giornali, le squadracce fasciste distrussero le sedi sindacali.”
“Il Sindacato è la più grande organizzazione del mondo del lavoro, depositaria delle istanze sociali di chi ha meno voce per farsi sentire. Le frange neofasciste vogliono strumentalizzare uno stato di malcontento, generato da dubbi che possono essere anche legittimi sull’attuale fase storica che stiamo attraversando. Abbiamo ribadito in varie occasioni che non riteniamo tutti coloro che manifestano contro il green pass dei fascisti facinorosi, ma è evidente che questi gruppi si vogliano intestare le proteste: difficile non accorgersene.”
“La CGIL è consapevole del malessere che avverte una parte dei lavoratori. Per primi, rispetto ad altri sindacati europei, abbiamo fatto partire una fitta campagna di informazione e sensibilizzazione sul tema dei vaccini, certi che fosse percorribile e auspicabile l’ipotesi dell’obbligo vaccinale. Abbiamo risposto prontamente alle nuove necessità imposte dal dilagare del virus con protocolli attenti sulla sicurezza nei posti di lavoro, fornendo, soprattutto alle categorie più a rischio e maggiormente fragili, i presidi di cui avevano bisogno. Temevamo l’esplosione negli ambienti di lavoro di un conflitto tra vaccinati e non, in grado di alimentare discriminazioni che si devono sanare immediatamente. Continuiamo in un capillare lavoro di rete per spiegare come le esigenze di una tutela maggiore del singolo equivalgano alla garanzia di sicurezza per tutti.”
“Io, da sempre, responsabili anche mamma e papà iscritti al sindacato, ho percepito la mia identità come parte di qualcosa di più grande. E’ una passionaccia quella per la politica e l’impegno, costante sin dai collettivi studenteschi: la caratterizzazione di me si rispecchia in una visione collettiva.”
“Per questo, esserci domani è fondamentale: non significa solo riprendersi la piazza, ma chiudere ogni tentativo nostalgico del fascismo degli anni 20 e della violenza degli anni 70, attraverso una risposta democratica e compatta. E’ il mondo del lavoro a raccogliere le forze. Dopo la pandemia, il cambiamento va portato avanti in maniera diversa, tenendo presenti le esigenze del lavoro che deve essere giusto e dignitoso: questa è l’unica base della democrazia. Quando si indebolisce c’è il rischio che si possano inserire delle degenerazioni che approfittano proprio delle fragilità. Al presidio di Bruxelles saranno presenti anche rappresentanti delle associazioni datoriali, più timide nella reazione qui in Italia, mi auguro che domani non ci siano distinguo: tutti insieme in piazza!”
La traccia volante:
“E’ la Cgil che mi ha fatto come sono. Mi ha dato le ragioni più profonde e più grandi di vita e di lotta. Mi ha dato una cultura, anche. Mi ha dato un’etica, un’educazione sociale e politica.”
La Regione Marche dice No alla richiesta di intitolazione a Gino Strada della sede del corso di laurea in infermieristica di Pesaro. Le motivazioni indignano; la coscienza ribolle; l’appartenenza ad una comunità civile richiede l’impegno a battersi perché non si infanghi la memoria necessaria di un modello unico di medico e di essere umano.
Nel sorriso dei bambini salvati dalle ferite dello scoppio di una mina; nelle donne e negli uomini, curati senza distinzione di lingua, religione, appartenenza, fin nei luoghi più lontani e martoriati del mondo; nei medici, negli infermieri, nei soccorritori, formati al cospetto di chi non ha mai negato il sostegno della propria esperienza e competenza: le tracce di Gino Strada, fondatore di Emergency, sono nel vento di amore, pace e solidarietà che ha fatto soffiare forte e continua a contrastare le correnti di odio, pregiudizio, egoismo.
Non ha bisogno, lui, di strade, piazze, eventi che lo ricordino: siamo noi, i nostri figli, nipoti, le generazioni presenti e future ad avere necessità che non venga mai dimenticata la sua figura.
E’ una premessa che l’indomani del 13 agosto del 2021, la giornata funesta che lo ha portato via dalla terra, poteva sembrare inutile. Si levò, unanime il coro delle ovazioni e degli elogi post mortem, financo dei più acerrimi oppositori. L’onore delle armi, per una vita densa, impegnata, mai vile, discreta, ma schietta, volta al sostegno dei più deboli, concessa anche da parte di coloro che non l’avevano mai compresa, anzi osteggiata con mistificazioni utilizzate per provare, vanamente, ad adombrarla.
Oggi, dopo neanche due mesi, il 6 ottobre del 2021, bisogna ribadire ciò che più ovvio non è, ai rappresentanti della Giunta Regionale delle Marche che si sono permessi di rigettare la richiesta di intitolare a Gino Strada la sede di un corso di laurea in infermieristica. A presentarla i consiglieri del PD, Andrea Biancani e Micaela Vitri, certi che mai avrebbero dovuto ascoltare un diniego, basato sulle stesse infamanti falsità, con cui spesso, il fondatore di Emergency, era stato attaccato in vita.
La prima piazza dedicata nel comune di Pontedera in Toscana
Le motivazioni, impunemente lette in aula, sono un insulto che si sperava di non ascoltare più: non si può dedicare nulla a chi viene definito una figura ideologizzata, aggiungendo addirittura l’inopportunità di intitolare un luogo pubblico a chi si sarebbe macchiato di un passato violento.
Se avessimo la capacità di Gino Strada di affrontare ogni giorno con occhi, cervello e cuore alle vere questioni importanti come il soccorso e la salvezza del prossimo, riusciremmo a scrollarci di dosso le parole così odiose. Se fossimo come la sua meravigliosa figlia, Cecilia, che pure ha finalmente messo nelle mani di legali e si è pronunciata pubblicamente contro le calunnie più crudeli verso il padre, troveremmo il senso della risposta nel proseguimento di un lavoro incessante in mare e nelle zone di guerra, proprio nel nome di quanto fondato da Strada.
Non siamo loro, per questo abbiamo bisogno, di ciò che hanno rappresentato e sono, per superare l’ottusità e l’ignoranza di chi nega la realtà.
Mai come in questo periodo storico, siamo chiamati a conservare la forza, la lungimiranza, la ricchezza d’animo, l’umiltà di riconoscere di dover ancora imparare: di avere necessità vitale della memoria pubblica non di un uomo, ma dell’umanità intera, di cui quello stesso uomo, sua moglie Teresa, sua figlia Cecilia, sono patrimonio.
“I pazienti vengono sempre prima di tutto.”
Ripeteva il chirurgo di guerra, Gino Strada.
Studiare come curare i malati in un luogo che ne evochi l’esperienza, l’etica, i valori e gli obiettivi significa accreditare da subito la motivazione.
La sede del corso di laurea in infermieristica presso il presidio ospedaliero di Muraglia dell’ Ospedali Riuniti Marche Nord poteva essere la prima ad offrire, anche questo onore. alle aspiranti infermiere ed infermieri.
Rispetto a quanti fuggono dalla professione per la mancanza, il più delle volte oggettiva, delle condizioni per svolgerla, intimoriti da una precarietà costante, ribadire l’immagine di colui che ha lottato e operato laddove era ancora più duro farlo, vale corsi ad ingresso libero, concorsi per meriti, diritti rispettati.
Quando Gino Strada è morto, Cecilia Strada era a bordo della ResQ People saving people, la nave sulla quale, insieme a volontari di diversi paesi del mondo, salva chi fugge dagli orrori della guerra. Nel suo profilo social è riuscita a scrivere:
“Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio. Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre.”
La memoria di Gino Strada è un insegnamento che salva i valori dell’umanità.
Non ha nessuna appartenenza, perché di tutti è l’amore che ci ha lasciato.
“Quel che facciamo per loro, noi e altri, quel che possiamo fare con le nostre forze, è forse meno di una gocciolina nell’oceano. Ma resto dell’idea che è meglio che ci sia, quella gocciolina, perché se non ci fosse sarebbe peggio per tutti. Tutto qui. È un lavoro faticoso, quello del chirurgo di guerra. Ma è anche, per me, un grande onore.”
GINO STRADA, medico, chirurgo di guerra, uomo di pace
“Oggi abito questo corpo che mi porta a spasso, domani chissà, magari sarò vento, o pioggia o terra, o acqua. Mentre scrivo, mi accorgo che tutto questo non mi spaventa più”
Lara Facondi
Sabato 22 maggio nei locali dell’Accademia Popolare dell’Antimafia e dei diritti, l’Associazione daSud insieme ai familiari, al compagno e alcune delle persone a lei più care, presenterà due iniziative dedicate alla memoria di Lara Facondi: il Fondo di Libri e l’Officina, una scuola di riflessione e di scrittura dedicata alla formazione di dieci ragazze e ragazzi neodiplomati.
Quante tracce preziose lascia una giovane donna appassionata di cultura e di vita?
Sono nell’impegno quotidiano per gli altri in cui ha investito il suo tempo, nella costruzione di percorsi di conoscenza, nell’apertura di prospettive verso il futuro, nitide, donate a chi decide di portarle avanti. Lara Facondi, giornalista, attivista, dottoressa in psicologia, in 41 anni ha impresso tutto questo e altro nel cuore e nella volontà di chi ha avuto la fortuna di starle accanto.
Nel comunicato con cui i suoi amici dell’Associazione daSud annunciano l’appuntamento di sabato la descrivono, dando ancora più significato alla modalità di rinnovarne il sorriso, la gioia, l’intelligenza.
“Da sempre nostra compagna di viaggio, grande amante della lettura e della scrittura, Lara ha sempre raccontato la realtà che la circondava con profondità e ironia, senza semplificazioni, dimostrando un sincero amore per la parola e credendo nella forza del linguaggio. Lara ci ha lasciato una grande eredità di pensiero, professionalità, dedizione, cura e passione di cui vogliamo fare memoria ogni giorno.”
Grazie alle donazioni di quanti hanno contribuito alla raccolta avviata in suo nome, è stato creato un fondo di libri. Sarà uno spazio all’interno di #BiblioÀP in cui poter riflettere, attraverso una preziosa selezione di testi letterari, filosofici, politici e scientifici, sul racconto della vita e della realtà. Gli scaffali della biblioteca, nei locali dell’Istituto Enzo Ferrari, periferia est di Roma, custodiranno cento volumi capaci di restituire ai lettori e ai visitatori la sensibilità che contraddistingueva Lara, una giornalista che si è dedicata al racconto di chi è ai margini della vita sociale.
Parole, libri, formazione e riflessioni in nome di chi ha contribuito a fondare l’Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti, nata proprio per riattivare le migliori energie sociali del territorio, trasformare la periferia, cambiare l’immaginario sulle mafie e l’antimafia, fornire servizi utili alle cittadine e ai cittadini, costruire un punto di vista critico sulla città.
Chi lascia queste tracce, continuerà a vivere per sempre.
“Volevo fare i complimenti a mio padre che è riuscito a vincere questo premio anche se non c’è più”
Emma Torre
E’ salita sul palco con la forza dell’emozione contagiosa dei suoi dodici anni, seppur avvolta dalla struggente disperazione che pochi potevano comprendere. Emma Torre, figlia di Mattia e di Francesca, ha ritirato insieme a sua mamma il David di Donatello, assegnato a suo padre per la migliore sceneggiatura originale del film “Figli”.
Ha preso fiato, quasi chiesto il permesso, prima di accostarsi al microfono e dare un senso diverso, reale alla cerimonia, al cinema celebrato, ai talenti premiati, alla genetica stupefacente dell’arte.
I ringraziamenti non hanno saltato nessuno di quelli che devono essere stati abbracci, supporti, sguardi presenti e vivi da quando il suo papà l’ha lasciata per sempre.
Da tutta via Beccari ai suoi amici, nome per nome: un appello di sentimenti non retorico.
Non c’è stato bisogno del foglietto, stritolato nelle mani di sua madre, neanche per pronunciare, nitida, la dedica di quella statuetta che è sembrata illuminare la sala più di tutte le altre fino a quel momento consegnate.
“Dedico questo premio al mio fratellino Nico, che mi fa ammazzare dalle risate, e a mia mamma che non si arrende mai. “Figli” parla di famiglia sole e di bambini che nascono, per questo ringrazio anche le ostetriche che fanno nascere nuove vite e i medici che si impegnano a non far volare via le persone. Bravo papà».
Emma Torre, a cui è stata tributata una necessaria standing ovation, ha dimostrato con i suoi dodici teneri e temerari anni, quanto valore abbia la traccia che solo l’amore puro sa imprimere.
Se il cinema italiano avesse bisogno di energie da cui ripartire, sono negli occhi e nelle parole di questa ragazza, figlia di una donna che fa venire alla luce i bambini e di un uomo che ha reso immortale il sentimento che si prova per loro.
“I figli ti fanno ripiombare, con una forza che neanche l’ipnosi, nel tuo passato più doloroso e remoto: l’odore degli alberi alle otto del mattino prima di entrare a scuola, la simmetrica precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa, che credevi di aver incasellato in categorie discutibili ma tutto sommato valide, o comunque tue, sfugge via. Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin-tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità. Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arruginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande. “
Dal monologo “I figli ti invecchiano” di Mattia Torre
Non se ne è accorto nemmeno il collega che era alle sue spalle, forse neanche lei se ne è resa conto. Inghiottita dal rullo di un macchinario con il quale lavorava ogni giorno da un anno in una fabbrica tessile della provincia di Prato.
Così è morta, ieri mattina, 3 maggio 2021, alle 11, Luana D’Orazio, 22 anni, mamma di una bambina piccola.
Hanno trovato solo foto sorridenti per illustrare la tragica notizia: bastano questi scatti ad imprimere nell’anima l’assurdità della tragedia.
Oste di Montemurlo è un paesino di case basse, in passato era conosciuto per l’artigianato: quasi in ogni famiglia si respirava la tradizione di filati, stoffe e orditi. Una delle eccellenze del centro Italia produttivo, sviluppata con garbo e rispetto: l’industria sembrava essersi incastonata nella grazia dei panorami e non aver condizionato nemmeno i rapporti sociali. Il romanzo si è fermato già da parecchio, omologandosi al resto delle cronache occupazionali che purtroppo dipingono la realtà attuale. Se si è fortunati, si riesce a strappare un contratto in una delle aziende, attive in capannoni sorti lungo le strade, dove la qualità delega alla quantità: si deve produrre tanto e in fretta, forse, tralasciando anche i diritti minimi alla sicurezza.
Eppure Luana sorrideva: i colleghi e i parenti intervistati, dicono fosse felice di aver trovato il modo per garantire un presente ed un futuro al suo piccolo amore. Era bella, tanto che l’imperfetto apre un’altra ferita profonda. Viene da immaginarsi le sue giornate, per molti una alienante monotonia di gesti e abitudini faticose: la sveglia presto; il tempo di lasciare la figlia all’asilo o da una nonna; la corsa in fabbrica; il turno; la chiacchiera con i vicini di posto; la pausa pranzo magari saltata per staccare prima e tornare dalla sua bambina di cui prendersi cura, poi, forse, finalmente, qualche piccolo svago e il meritato riposo. Luana è cittadina, anzi, era, onoraria di quel popolo silenzioso che non si rassegna: va avanti nella vita come può, trovando tesori nascosti nell’inatteso che non fanno mai spengere la luce nello sguardo.
Il 1 maggio non hanno palchi da cui parlare, non li cercano, non hanno voglia di ascoltare parole: le energie le tengono semmai per un ultimo ballo felice prima di crollare stanchi.
Qualcuno, nella stessa assenza di clamore, cercherà giustizia per Luana, proverà a spiegare a sua figlia che è accaduto perché non succeda più in futuro ad altri. Nessuno riuscirà a farglielo accettare.
“Gli eroi sono tutti giovani e belli” cantava Guccini. La vita non è un romanzo, non è una canzone, non è ballo: dovrebbe essere tutto insieme, ma rimane solo un filo di stoffa che non asciuga le lacrime.
Luana non è una eroina, i suoi occhi troppo allegri per piangere.