Come passerotti

Lentamente si spensero: le palpitanti A, le sbadiglianti B, le luminose G, le chiassose M, le curiose S. pronte a ritrasformarsi in occhi, sorrisi, mani alzate, domande inopportune, risate e silenzi liberi.  

Oggi, per i bambini della scuola materna e primaria, potrebbe essere l’ultimo giorno della DAD: la famigerata, angosciante, inevitabile, didattica a distanza. Tra adulti ci si è divisi, scontrati, attaccati, offesi e rassegnati. Ma se si guardasse a queste giornate da una prospettiva diversa, più piccola? Ho tentato. Con la fantasia, strumento di sopravvivenza unico, democratico e garantito, ho trasformato, giusto un poco, la realtà, rendendo persino la DAD un ricordo più allegro. Protagonisti quegli eroi, colorati e flessibili dei bambini. Il risultato è un piccolo racconto, disegnato con il cuore da Anne, che dedico a: Luca, Valeria, Francesco, Viola; ai loro compagni di classe e non; alle maestre, ai maestri, tante e tanti che hanno superato l’impresa con passione; a noi genitori, pesanti ma resistenti; ai nonni, anche in questa occasione, un prezioso aiuto. Buona primavera di sole dalla finestra o in strada, a tutti. Dopo Pasqua, forse, si torna in classe!

“Maestra: Stefano c’era, forse è andato in bagno!”

Le letterine coloravano il buio dello schermo, celando le voci e gli occhi dei venti alunni della I D della scuola primaria Camilla Cederna. Da qualche settimana, ogni mattina, si trasformavano: la A diventava Alba; la B sbadigliava in Bruno; la G brillava come Gemma; la M rideva da Massimo; la S di Stefano chiacchierava sempre.

Non si trattava di magie tecnologiche: era semplicemente la DAD.

Si sapeva che, purtroppo, non per responsabilità delle corse furtive nel cortile, o per lo scambio sacrilego di un temperino, una terza ondata del virus avrebbe portato all’inevitabile blocco delle lezioni in presenza. Già il giorno dopo la comunicazione ufficiale del Ministero, era pronto il nuovo orario per gestire italiano, matematica, persino motoria, a distanza. I bambini ne erano quasi entusiasti; gli insegnanti si mostravano più disinvolti nell’utilizzo del mezzo; i genitori, tendenzialmente, si dimostravano affranti.

Il programma era stato intenso: ripassate le paroline con MB e MP; imparato le lettere straniere dell’alfabeto J, Y, X, K, W; disegnato gli oggetti legati ai cinque sensi; confezionato maracas con i ceci;  innescato gare di addizioni e sottrazioni; per finire, ritmato i movimenti di canzoncine inglesi.

Puntuali, alle nove, le letterine si schiudevano  in domande inopportune “maestra hai fatto già la cacca?”; in sfide all’ultima alzata di mano virtuale “l’ho detto prima io, ti ho fregato!”; in curiosità esterne “ma dov’è il cane di Giacomo? Paola, ci fai vedere tuo fratello piccolo?”. Ultimamente, però, avevano iniziato a perdere sfumature e ridurre suoni. La presenza dei genitori diventava fondamentale per spengere, accendere, ridurre e “resisti, dai è quasi finita!”.

La maestra Enrica aveva capito; la collega Mara provava ad inventare nuove strategie di coinvolgimento; mentre l’inflessibile Wanda, continuava nelle sue interminabili ore, intervallate dal grido “rifaccio l’appello, guai a chi si distrae!”.

Stava accadendo anche quella mattina.

“Stefano ci sei, sei andato via, rispondi o ti metto assente!”

La S, di norma, era la prima ad animarsi, con uno sfondo sempre diverso: lo sguardo vispo sbucava tra fuochi d’artificio o palme di isole esotiche. Pronto a rispondere, non si faceva mancare dubbi e proposte. Si era dovuto assentare il giorno prima: motivi famigliari avevano scritto i genitori nel registro elettronico. La mamma aveva comunicato alla maestra Enrica che si era ammalato il nonno e doveva partire per andare ad accudirlo.

Forse, non riuscirà a connettersi, magari sarà un po’ agitato, confido in lei”, aveva aggiunto, caricando, la già sensibile insegnante, di una ulteriore responsabilità.

I sentimenti dei bambini erano rimasti l’àncora silenziosa di ogni casa. Potevano esserci problemi economici, di lavoro, attriti, dolori, distanze prolungate, ma loro, i guerrieri flessibili, non mollavano, mostrando il più largo dei sorrisi per scavalcare ogni difficoltà, evitando di trasformarsi in una di esse.

Porta questo a nonno e digli che appena sta bene ci giochiamo insieme!”

L’aereoplanino di carta di Stefano era un prodigioso origami, perfetto per far arrivare a destinazione un bagaglio di immagini allegre da far tornare la voglia di stare in forma.

La prima l’aveva caricata la maestra, rassicurando la mamma.

Non si preoccupi, suo figlio è una forza della natura, sono certa che troverà il modo per continuare a sottoporci le sue domande più bizzarre.”

Un incoraggiamento da riportare all’orgoglioso nonno che aveva trasmesso il gene della curiosità e della scoperta al nipote.

Nel frattempo, la responsabilità educativa era passata al padre. Era riuscito ad installare classroom, facendosi guidare dai messaggi solidali nella chat, aveva messo sulla scrivania, schierati: tutti i libri, i quaderni, la matita, i colori temperati e la gomma.

Dalla stanza, in cui squillava di continuo il telefono, riusciva a vedere la postazione.

Stefano, aveva acceso la sua espressione ironica dietro la S., a metà della lezione, però si era spostato. Poco, giusto, qualche metro, tanto da lasciare un frammento riflesso nello schermo nel quale non aveva creato sfondi speciali.

C’è, maestra, non lo vede: è in un angolo!”

Lo aveva notato solo Alba, innamorata di ogni dettaglio del suo compagno.

“Stefano! Ste! Biondino! Ohiii!”

Si accesero tutti i microfoni, anche quelli delle letterine spente. L’insegnante ordinò di tacere.

Smettetela! E tu torna davanti la videocamera! Cosa è questo mormorio?”

Un cinguettio, poi due, tre: una melodia improvvisa irruppe in DAD.

Ma chi continua a cantare?

 Le note non si erano fermate. Solo tre palline azzurre si muovevano oltre a quelle dell’alterata docente.

Insomma basta!”

La S verde si spense per pochi secondi, il tempo di riaccendersi davanti al sorriso di Stefano con in mano un passerotto.

“Guardate, è venuto a trovarmi! Nonno sta sicuramente meglio!”

“Certo, tesoro, è bellissimo!”

La maestra Enrica aveva preso in mano la situazione.

Che nome diamo a questo nuovo amico?”

Dadino, Lo Ste, Lyon, Primo, Wanda!”

A turno le letterine avevano ripreso a brillare.

“E voi: chi e cosa vorreste trovare fuori dalla finestra?

Il sole, il pallone, i gelati, il mare, le corse insieme, i cuginetti di Torino, la nonna da Palermo, le lezioni di judo, l’allegria, i clacson, i bomboloni al bar, la strada senza paura…”

L’ora passò velocissima, come non era mai successo prima. Non ci fu bisogno di chiedere di partecipare o di tacere: a turno, i sentimenti dei bambini della I D della scuola Camilla Cederna, mostrarono di essere ben presenti e di voler essere condivisi.

Adesso ci salutiamo: niente compiti! Tanto, dopo Pasqua si torna a scuola insieme!”

Evvai!

Le urla attirarono il padre di Stefano: si accorse della finestra aperta e della postazione piena di piume.

“Ma che hai combinato! Ero al telefono con mamma, nonno è uscito dall’ospedale. Se non metti a posto non ti faccio portare il regalo che ti ha fatto, sicuramente, comprare!”

“Io ce l’ho già! Guarda papà: lasciamolo volare via insieme!”

Lentamente si spensero le palpitanti A, le sbadiglianti B, le luminose G, le chiassose M, le curiose S. pronte a ritrasformarsi in occhi, sorrisi, mani alzate, domande inopportune, risate e silenzi veri.  

Stefano e il papà liberarono nel cielo colorato di primavera il passerotto dai tanti nomi.

Il teatro è una cosa seria

Uno scrittore può aspettare l’ispirazione davanti ad una pagina bianca. Un attore, per indole o per necessità, dopo poco non resiste: deve tirar fuori quanto ha dentro da esprimere.

Un attore vive ogni giorno la sua arte: nei passi con cui cammina lungo una strada; nel sorriso attraverso il quale saluta coloro che incontra; negli occhi che osservano e si ispirano; nella voce, naturalmente cadenzata al ritmo delle situazioni che affronta. Il palcoscenico da una piazza diventa la scenografia in una sala, il pubblico incantato si ferma, diventando anch’esso parte di una magia che si chiama teatro. Guido Ruvolo era un attore. Dal mimo, al circo, al meta teatro, da Carmelo Bene a Shakespeare, alle opere scritte e auto prodotte sulla base delle esperienze direttamente vissute. Persona e personaggio, senza mai celare le emozioni, scavate nel profondo, anche quando indossava una maschera o un trucco pesante. Il teatro è fermo da troppo tempo, lui non poteva farlo: ha continuato a scrivere, interpretare, suonare la sua armonica fino all’ultimo giorno. Lo racconta sua figlia Clio, stessa luce nello sguardo, sfidante e vittoriosa contro ogni avversità, caratteristica nutrita da una famiglia, cresciuta nell’arte e impegnata a divulgarne la bellezza. La sua traccia è un passo nel percorso che la porterà a dedicare a suo padre lo spettacolo che merita, affinché non si dimentichi mai come deve essere un vero attore.  

La traccia: Guido Ruvolo, padre, attore

“Da quando sono nata, l’ho seguito in teatro. Mio padre è sempre stato molto presente nella mia vita. I miei genitori sono stati insieme 18 anni, si sono separati che io ne avevo quattro e mezzo: fino a che non sono diventata maggiorenne hanno condiviso ogni decisione che mi riguardasse. Li ho sempre visti in armonia: è stato fondamentale per creare con entrambi un rapporto forte, speciale, di fiducia e di complicità.

Il primo ricordo da bambina è legato ad uno spettacolo. Avevo circa tre anni, papà portava in scena One man Show. Era solo sul palco con indosso un asciugamano: mi sono arrampicata su una poltroncina e ho cominciato a chiamarlo a squarciagola. Ne ha approfittato per una improvvisazione: padre e figlia. E’ continuata così la nostra storia: con il teatro al centro. Da che ho imparato a leggere, mi dedicavo a ripetere a memoria le battute dei suoi spettacoli anche quelle dei suoi compagni, in modo da poterlo aiutare con le prove a casa. Spesso aspettavo, sveglia, di notte, che tornasse perché mi raccontasse come fosse andato lo spettacolo. Ero e rimango gelosa della sua valigia dell’attore. Ancora oggi racchiude la sua anima: costumi, attrezzi, foto di tutti i personaggi che ha interpretato. Era la sua inseparabile compagna di lavoro. Io attendevo con ansia di rivedere entrambi: parti inscindibili dello stesso mondo magico.

“Credo di aver rappresentato per lui anche un’ottima assistente: non che fosse semplice. Papà passava dal Riccardo III a personaggi comici. Con la Compagnia di Pippo Di Marca collaborò a progetti di Meta teatro: a sei anni mi fece assistere ad una versione di Aspettando Godot che ancora non ho capito. D’altronde a 7 anni mi ha fatto vedere Blade Runner. Alternava il racconto di fiabe meravigliose: prima di addormentarmi, ero spettatrice unica di reinterpretazioni indimenticabili di leggende, favole, aneddoti inventati, sempre nuove e originali.”

“Sono stata plasmata per molti aspetti dalle sue passioni: in particolare dal teatro e dal mare. Mio nonno aveva ricoperto un ruolo importante nella Marina Militare durante la seconda guerra mondiale, tanto che a mio padre toccò seguire le sue orme. Aveva tre fratelli: uno è frate francescano, una sorella è diventata cuoca e costumista, la seconda ha scelto un’altra professione, rimaneva solo lui da arruolare in Marina. Ha resistito dai 17 ai 23 anni, poi è scappato dalla Sicilia a Roma. Qui ha iniziato a studiare da autodidatta, incontrando e apprendendo da personalità uniche come quella di Carmelo Bene. Il grande pregio di papà è stato anche un suo limite: aveva un carattere forte, istrionico che non cedeva mai a compromessi. Era bellissimo, bravo, molto apprezzato e ricercato, ma se non era convinto di quanto gli veniva proposto, non ascoltava lusinghe.”

“Questo lo ha reso il mio eroe: un uomo, un attore che ce l’ha fatta da solo. Il teatro per lui era vita. Il personaggio Guido e la persona Guido erano un tutt’uno. Ogni esperienza che gli capitava, diventava un atto da portare in scena, così reale da crederci. Penso ai suoi racconti giornalieri sui suoi incontri quando andava a fare la spesa al mercato. Le origini della zuccheriera acquistata ad un banco dell’antiquariato, si trasformavano in versi di un’opera da ascoltare, concentrati. La ferita che si era provocato cadendo in bicicletta, per tutti era la conseguenza del morso di uno squalo. I nostri giri in vespa per Roma rimangono pagine di romanzo tratte da vicoli, monumenti, insegne di negozio. Nell’ultimo periodo che ha dovuto vivere senza stare tra la gente per il virus, gli mancava tanto non prendere autobus e metropolitana: erano fonti continue di ispirazione.

La strada era la sua scena: con suo cugino Nino Montalto ha fatto il mimo, accompagnato dalla sua armonica. Ha partecipato a Festival del Circo con i suoi pantaloni larghi a pois e il viso truccato. Io non ero ancora nata, ma mi ha raccontato: mi faceva vedere le foto, sempre estratte dalla sua preziosa valigia. Erano parte di un percorso che aveva dentro.”

“Continuava ad ispirarsi ai personaggi della realtà per questo riusciva a trasmettere così tanto in maniera naturale. Interagiva continuamente con il suo pubblico: assistere ad un suo spettacolo spesso equivaleva a farlo. Un rapporto che proseguiva oltre il palco: gli volevano bene tutti, dal fruttivendolo all’impresario. Strappava sorrisi pure nei momenti più impensabili. Non manifestava mai paure, riuscendo a trasmettere un senso di protezione unico, intriso di gioia e di leggerezza.

Ho il ricordo nitido di quando andò a fare uno spettacolo al Corviale, vicino la biblioteca, durante una serata organizzata da alcuni suoi amici.

“Ahò, ma se nun ce piaci?” gli urlarono dagli spalti. “E se nun me piacete voi?” rispose, conquistandoli.

Aveva una dizione perfetta, ma riusciva ad entrare in ogni dialetto: siculo napoletano, vissuto molto in Liguria, poteva passare da trasteverino senza problemi.

Era il re dell’improvvisazione. Amava la musica, suonando, a modo suo, tromba e armonica. Aveva partecipato in questo modo a spettacoli di blues. Tutto diventava facile quando si trasformava in teatro nella sua accezione totalizzante. Pativa per la trasformazione di questo mondo, per le difficoltà sempre maggiori a riempire le sale, ad attrarre gente. Voleva, però, che rimanesse traccia di quanto aveva sperimentato direttamente. Non ero tecnologico, ma aveva iniziato a realizzare dei cortometraggi per raccontare il suo teatro.”

“Per quanto trovasse il buono in ogni cosa, negli ultimi anni era spesso critico verso la televisione: non apprezzava un certo tipo di comicità che si diffondeva dallo schermo. Lui portava a ridere con poesia. Nel teatro tutto era poetico: le luci che si abbassano, i riflettori che si accendono, il palcoscenico prima lontano e poi compreso nella sala. La tv era distanza e frequente conquista di consensi con la volgarità. Papà era alla ricerca continua della sensibilità. Non poteva non scontrarsi con un mondo nel quale vedeva crescere chi abdicava il merito alle conoscenze. Per lui lo spettacolo doveva continuare ad essere frutto di impegno, apprendimento ed empatia. Capitava se la prendesse anche con alcuni esperimenti di teatro amatoriale a cui assisteva: il teatro doveva essere considerato una cosa seria.”

“Stavo quasi per seguire il suo percorso. Grazie ad una casualità, vinsi una borsa di studio per una scuola teatrale. Mi piaceva molto: oltre a quanto mi ha trasmesso papà, anche mia madre e mia nonna con la loro passione per la pittura, mi hanno cresciuto nell’arte. Poteva sembrare inevitabile per me, proseguire in questi contesti. Scelsi di fare altro, forse proprio perché avevo bisogno di esprimere quella sensibilità e quell’amore per gli altri, così nutrito dalla mia famiglia. Ho tenuto la passione per la conoscenza che non mi ha fermato nell’avventura del viaggio per cui sono stata molto tempo lontana a contatto con ambienti e persone diverse. Con capacità genetiche continuo a conservare e farmi arricchire da ogni mia esperienza: nei reparti ospedalieri, dove lavoro come infermiera e sulle onde che cavalco con la mia tavola da surf.”

“Papà, come me, non si è fermato mai. In casa scriveva, non bloccava il genio dentro, lo trasferiva nelle pagine di nuovi spettacoli. A volte capitava che registrasse qualche passaggio di questi lavori. Ho avuto il privilegio di vedere alcuni one man show improvvisati che mi inviava come messaggi quando ero in Australia: ballate, scritte dalla sua penna e suonate con la sua armonica.

Uno scrittore può aspettare l’ispirazione davanti ad una pagina bianca; un attore per indole o per necessità dopo poco non resiste, deve tirar fuori quanto ha dentro da esprimere.”

“Lo ha fatto fino all’ultimo minuto, rallegrando tutti. Mi dispiace: non abbiamo potuto organizzare il saluto che meritava. Una delle sue passioni lo accompagna anche ora, perché lo abbiamo seppellito nel cimitero di Massa Lubrense, affacciato sul mare. Appena sarà possibile, dobbiamo mantenere la seconda promessa: dedicare uno spettacolo alla sua partenza, con musica, parole e sorrisi di coloro che lo hanno amato. Spero che il 15 giugno, giorno del suo compleanno, si possa organizzare in un teatro, devolvendo gli incassi ad associazioni di volontariato. Vorrei proiettare i video in cui è in scena per poi dare la possibilità, a chi voglia, di salire sul palco per raccontare chi fosse Guido Ruvolo, attore, uomo, persona, personaggio. Per me, padre speciale.”

La traccia volante: “Prima di essere mia figlia, tu sei una persona.”

Claudio e la scuola che c’era

“Al Liceo Virgilio abbiamo condiviso un periodo unico della nostra vita, forse anche di quella del paese. Il referendum del 48 aveva diviso le famiglie. Noi eravamo in mezzo, inevitabilmente, alla politica, ma anche coinvolti in una vita semplice di partecipazione e condivisione.”

Professor Francesco Margiotta

Gli anni delle superiori costituiscono capitoli speciali nella vita di ognuno: a volte sono paragrafi da dimenticare, più spesso rappresentano pagine intoccabili, da consegnare a figli e nipoti. I professori che improvvisamente diventano avversari o riferimenti a cui affidare il proprio destino; compagni che sono amici, vicini in diversi momenti fondamentali dell’esistenza; amori, abitudini, scherzi, debolezze, scelte, impegno politico, partecipazione sociale, tensione ludica. Dall’adolescenza alla maturità: nelle aule si cambia, tenendo impressi segni che connoteranno a lungo, forse per sempre, i ricordi legati alla scuola. In queste settimane di DAD nelle quali ragazzi e insegnanti si sforzano di mantenere rapporti umani e ricreare atmosfere dallo schermo di un computer, mi ha colto l’emozione del passato con il racconto di un liceale del 1950. Dalle parole del professor Francesco Margiotta, un curriculum denso di incarichi universitari da Urbino, Parma e Firenze, ho ricostruito stralci di cosa significasse frequentare il Virgilio, liceo storico della capitale, negli anni della ricostruzione, dopo la seconda guerra mondiale. A fianco a Francesco, la memoria costante del suo amico di avventure, Claudio Mancini. A lui, redattore del giornale scolastico, presidente della squadra di basket, fondatore del circolo per alunni ed ex allievi, è dedicata la traccia: aneddoti in cui si fonde storia personale e pubblica di un momento storico nel quale si poteva partecipare alla trasformazione della realtà. Si spera di generare un sorriso nei coetanei e infondere fiducia in figli e soprattutto nipoti

La traccia: al Liceo Virgilio negli anni 50

“Dal 1948 al 56 ho fatto sia le medie, sia le superiori al Virgilio.  I miei nonni abitavano a Piazza dell’Orologio, io al Ghetto, a piazza delle Cinque Scole. Le elementari le avevo frequentate, guerra in corso, alternando una settimana di mattina, una di pomeriggio. A Roma c’erano poche scuole attive: bisognava fare i turni. E’ una delle poche similitudini che mi sento di fare con quanto accade oggi. Nell’edifico delle medie del Virgilio siamo stati i primi a rientrare dopo che aveva ripreso la sua funzione: era stato adibito ad ospedale militare, c’erano ancora tutti i simboli fascisti attaccati.”

“La particolarità che unisce il periodo delle medie alle superiori, riguarda gli insegnanti di religione. Erano i parroci delle chiese vicine, creando un collegamento stretto con il territorio. Le parrocchie erano attivissime in quei tempi, ci trovavamo spesso coinvolti in attività sociali organizzate dagli oratori. Penso ai rapporti con gli orfanotrofi: andavamo a portare i regali ai bambini durante le feste. C’ è una vicenda molto dolorosa che porto dentro con un ricordo per fortuna a lieto fine. Ad Ostia trovarono un bambino, seppellito, probabilmente dai genitori naturali, sotto la sabbia: era ancora vivo. Fummo così colpiti da questa storia che chiedemmo al nostro preside di adottarlo: prendercene cura come scuola, benchè venisse affidato ad una struttura. Purtroppo, per quanto la memoria legata a quel periodo sia molto più prolifica di quella a medio periodo, non so quale sia stato poi il futuro di quel ragazzo. Ricordo bene, invece, che avevamo come confessore padre Carresana che condividevamo con il cardinal Montini. Rimase al suo fianco anche quando divenne Papa. Io e Claudio gli ripetevamo che con noi gli era andata male.

Non eravamo cattivi ragazzi, sicuramente venivamo da un periodo difficile, cercavamo di uscirne, vivendo appieno ogni emozione che i giorni ci offrivano, con semplicità, naturalezza e passione. Abitavamo quasi tutti nel centro della città, facevano eccezioni alcuni ragazzi che arrivavano da Monteverde o da Garbatella. Non c’erano differenze, però, tra di noi rispetto alla provenienza: invidiavamo solo chi aveva le merende più succulente.”

“Fino al quinto ginnasio eravamo divisi: maschi e femmine. Poi ci rimisero insieme: le ragazze sempre con il grembiule nero. Vigeva la regola: “mai con le compagne di classe!”. Dopo anni scoprii che una di loro aveva partecipato a Miss Italia, nemmeno la ricordavo. Mia madre, professoressa di latino e greco nello stesso liceo, me lo ribadiva: “niente amori sul posto di lavoro!”. Mio padre pure era stato uno storico insegnante di italiano, ma nel 41 dal Virgilio si trasferì al Visconti.”

“Io e Claudio eravamo nella sezione A: la migliore, la più tosta, con i professori più robusti e ostici. Il prof. Virginelli di italiano, era stato a Fiume con D’Annunzio; Nosei di latino e greco era uno dei responsabili, curatori dell’Enciclopedia Treccani. Solo per citarne due, matematica non mi sovviene il nome, non era la mia materia preferita. Il rispetto era massimo, ma i rapporti erano connotati da umanità e simpatia. Passavamo la maggior parte delle nostre giornate a scuola con loro e tra di noi.”

“Con Claudio ci conoscevamo dalle medie, ma al Liceo siamo diventati amici: non compagni di banco, di più. Abbiamo condiviso l’avventura de La Fronda, il giornale che realizzavamo, controllando persino le virgole nella tipografia che lo stampava, vicino a scuola. Non lo dirigevamo, ma scrivevamo noi due quasi tutti gli articoli, principalmente recensioni di libri e film. Lo distribuivamo nei corridoi e in cortile, mi sembra che ci facessimo pure pagare le copie. Una volta il preside, il mitico Dall’Oglio, ci chiamò per un pezzo su Giovanni Gentile: ci accusò di essere fascisti perché pareva ne parlassimo quasi bene, non era proprio possibile in quegli anni. Chiarimmo e continuammo ad uscire. Non si incrinarono nemmeno i rapporti con il preside, tanto che Claudio si fece assegnare un’aula, entrando, al piano terra, a destra, dove fondò il circolo del Virgilio. Era uno spazio di ritrovo molto utilizzato dagli studenti per riunirsi, studiare, confrontarsi che poi accolse anche gli ex liceali per mantenere la memoria storica. In questo modo Claudio era il collante tra passato e presente. Ci venivano a trovare l’archeologo Filippo Coarelli, Rosa Russo Jervolino, Linda Germi, Andrea Ginzburg.”

“Oltre al giornale e al circolo, Claudio si dedicava con particolare passione alla squadra di pallacanestro, tanto da organizzare campionati e tornei anche quando frequentava l’Università. Era l’unico sport che praticavamo durante le ore di educazione fisica, rigorosamente divisi: noi in palestra al piano terra, le ragazze in quella dell’ultimo. All’uscita andavamo a prendere le studentesse del professionale Colomba Antonietti a Piazza della Quercia. Non essendo compagne di classe, era consentito corteggiarle. Il pomeriggio si studiava a casa dell’uno o dell’altro per poi ritrovarsi, di nuovo tra ragazzi, a giocare a calcio in piazza Farnese.

Un po’ di sport a scuola, le passeggiate nel quartiere, l’impegno sociale con la parrocchia e politico con i primi movimenti giovanili dei partiti. C’erano poche eccezioni di svago degne di memoria. Penso alle prime televisioni in casa, attorno a cui ci ritrovavamo. Paola Amendola, della storica famiglia omonima, fu la prima in classe ad averne una. Andavamo da lei, all’Aventino, a seguire i programmi che iniziavano a trasmettere. Leggevamo molto, comprando e vendendo ai banchetti dell’usato a Santa Lucia.”

“Era una scuola viva, la nostra, indimenticabile come i rapporti che si crearono nelle aule, tra i banchi. Con Claudio abbiamo proseguito il percorso di studi insieme. Ci siamo iscritti alla stessa facoltà: giurisprudenza. Non eravamo studenti “signorini”: lavoravamo, facendo pratica, quindi non frequentavamo. Claudio però continuava a gestire il circolo e i tornei al Virgilio, oltre a commentare le partite fino al 63 (era diventato pure corrispondente del Tempo). Continuavamo a vederci per gli esami. Poi lui si è trasferito a Ceccano, dove è diventato un riferimento culturale come insegnante e in qualità di fondatore dell’Inclito rompi club: lo spirito attivo del Liceo non lo lasciava mai. Io pure non mi sono fermato: ho girato in varie città con i diversi incarichi universitari, ma non ci siamo mai persi del tutto.”


“Abbiamo condiviso un periodo unico della nostra vita, forse anche di quella del paese. Il referendum del 48 aveva diviso le famiglie. Noi eravamo in mezzo, inevitabilmente, alla politica. Ne eravamo attratti, ogni partito aveva il suo movimento giovanile a cui aderire per partecipare alle trasformazioni della realtà. Purtroppo è un aspetto che ho visto scemare sempre di più, osservando i miei ultimi studenti all’università. So che Claudio fino al 2005 ha continuato a frequentare il circolo ex allievi da lui fondato. Io sono andato in pensione nel 2011. Non conosco bene i ragazzi di oggi, mi piacerebbe essere smentito, ma temo che questo tipo di impegno non ci sia.”

“Non frequento i giovani del 2021, ed è tanto tempo che non torno in centro a Roma. Da anni vivo a Firenze. Mi è dispiaciuto non aver potuto salutare Claudio: con sua figlia Beatrice ci siamo promessi che, non appena finiscono le restrizioni del virus, ci rivedremo per ricordarlo insieme. So che a breve inaugureranno un parco pubblico in piazza della Moretta, davanti al Virgilio e il nuovo campo da basket della scuola: sono contento che si valorizzino i luoghi nei quali siamo cresciuti e che difficilmente dimenticheremo. Potrebbe essere un’occasione perfetta per ricordare Claudio, il giornale, il circolo, e gli anni nei quali, dal Liceo, siamo stati formati per poter dare il nostro contributo al mondo.”

La traccia volante: Lo scopo della scuola è quello di formare i giovani a educare sé stessi per tutta la vita.

Robert Maynard Hutchins

90 giorni, 9 mesi, un anno

Avrei avuto tanto da raccontarti sui mesi nei quali abbiamo provato paura, ansia, nostalgia, distanze e voglia di stare insieme, di nuovo. Saresti stata il pensiero di luce che racchiude la speranza anche nelle storie più buie.

Durante la prima ondata del virus, la città di Pesaro venne colpita duramente. Fu tra le province già rosse a fine febbraio del 2020: chiusa dopo un innalzamento imprevisto dei contagi, dovuto anche ad un torneo di basket nazionale che aveva fatto arrivare tifosi da varie parti del paese, prima che venissero adottate le norme di sicurezza. L’ospedale cittadino, il San Salvatore, coadiuvato dal Santa Croce di Fano, cercò di far fronte all’emergenza: medici, infermieri, operatori sanitari non poterono più rispettare turni che divennero infiniti. Il suono delle ambulanze si sostituì a quello delle campane delle tante chiese del centro e alle note del Conservatorio. Persino il mare sembrò fermarsi davanti alla paura, il dolore, l’angoscia che colpì ognuno di noi, costretto a vivere, direttamente, in un’atmosfera a cui non si può essere preparati. A maggio, quando pareva essere fuori dal periodo più duro, alcuni scrissero, provando a lasciare traccia della bufera vista dalla propria prospettiva. L’ho fatto anche io, grazie alla richiesta di Paolo Pagnini animatore di eventi culturali, scrittore, che insieme a Stefano Giampaoli ha raccolto 38 racconti, compreso quello del sindaco Matteo Ricci, nell’antologia Scritti pesaresi della tempesta virale. Nella giornata che si è deciso di dedicare al ricordo delle vittime della pandemia, un numero che purtroppo continua a crescere, mentre siamo nuovamente in zona rossa, ho riletto le mie pagine e deciso di condividerle anche qui. Uscita dalla tempesta, pensai di tornare alla vita, doppia: mi inventai il modo per descrivere cosa era accaduto in quei novanta giorni a chi fosse arrivata dopo nove mesi. Non è diventata realtà, ma nella fantasia, le parole continuano a trasmettermi un senso di speranza, oggi più che mai necessario: un piccolo contributo che dedico a chi non c’è più, a chi ha curato, a chi ha resistito, a chi è ancora in mezzo alle onde e ai tanti bambini, simbolo della fiducia in un futuro di libertà possibile.

Se tu ci fossi stata ti avrei raccontato

Ho accarezzato spesso la pancia in questi ultimi dieci giorni. Credevo che da questa pandemia fossi uscita doppia. Terrorizzata dall’idea di riprendere un’impresa senza sonno, con la schiena a pezzi, di nuovo di fronte all’azzeramento dell’illusione di una vita indipendente, continuavo a provare l’insensata ebbrezza di poterti raccontare il tempo sospeso nel quale eri stata concepita. Sì: sentivo, altrettanto irrazionalmente, che saresti stata una femmina.

Ci immaginavo davanti al mare, a gennaio: facendo i calcoli, saresti arrivata con il freddo. Camminando lungo viale Trieste, in una di quelle mattinate di sole che provano a confondere le stagioni, ti avrei parlato di come ci eravamo ritrovati tutti insieme, per la prima volta, in casa, per un lungo periodo. Non un fine settimana o i dieci giorni di una vacanza estiva, ma oltre tre mesi: io, papà, tua sorella Viola e tuo fratello Luca.

Avrei cominciato, mimandoti gli aneddoti su tuo padre che lavorava dal computer in cucina, mentre tutti noi strisciavamo dietro la sedia per andare a bere o a prendere qualcosa in frigorifero, cercando di non essere visti dai colleghi in diretta video.

Nata digitale, avrei dato per scontata la spiegazione dei dettagli tecnologici: di sicuro tua sorella ti avrebbe già reso protagonista delle sue infinite storie social, anche durante i nove mesi dell’attesa. Lei che era diventata una regista della quarantena. I suoi progressi nel montaggio di scene e nell’apprendimento di effetti speciali andavano di pari passo con le mie cocenti e coerenti delusioni in cucina: il mondo in quei tre mesi si era scoperto panificatore, da noi l’indigestione da pizza mal lievitata aveva rappresentato il rischio concreto di finire in ospedale.  Te ne saresti accorta a breve con le mie pappe dai colori fosforescenti e la consistenza cementizia. Eppure eravamo ingrassati, tanto da farmi considerare la trasformazione del mio corpo per farti posto, una normale evoluzione del percorso di merende a base di nutella e salame nelle ore più improbabili della mattina e della sera.

Arrivate alla discesa accanto ai Bagni Tina, avrei osato scendere con la carrozzina sulla spiaggia. Era uno dei motivi per cui avevamo scelto di lasciare Roma. L’orizzonte senza confine del blu tutto l’anno era riuscito a vincere sul tramonto al Gianicolo d’estate. Tu saresti nata nella nostra nuova città. Forse no, non so se ce l’avrei fatta a tradire la tradizione dell’Isola Tiberina come primo sguardo sul pianeta!

Avrei respirato la calma delle acque ferme e limpide del mare di inverno, per confidarti che certi vicoli, scorci, voci di gabbiano e sorrisi di amici di infanzia avevano riempito di nostalgia alcune notti dell’aprile e del maggio passati. Appena possibile, te li avrei fatti conoscere.

Vuoi mettere, però la sensazione della sabbia sotto i piedi con la lana a coprire il resto del corpo! Per la prima volta in quel marzo e aprile così assolati, era stato vietato l’accesso alle spiagge: i granelli lasciati soli, senza nemmeno una zampa a confonderli, giusto la schiuma delle onde ad accarezzare i più fortunati a riva. Il ritmo delle ruote nell’affrontare qualche dunetta, mi avrebbe fatto tornare in mente le canzoncine registrate nei video delle maestre di Luca che non si era mai entusiasmato a sentire, ma io avevo imparato a memoria. Avremo visto passare qualche cagnolino, andati quasi a ruba quando costituivano una strategia per garantirsi un’ora d’aria quotidiana. Avevo ceduto anche io alla tentazione, imponendo a nonno Giorgio di farmi portare la mattina il povero Puck, conteso con zia Anne.

In questo modo avrei potuto descriverti come appariva strano il centro di Pesaro. Deserto e spettrale alle nove di un marzo nel quale erano cominciate a sbocciare le rose tra i cespugli di Piazzale Matteotti; trattenuto, timoroso, con spinte di audacia verso la fine di aprile, quando sparuti ragazzi si arrischiavano a correre intorno alla rocca; timido, ma voglioso di tornare a vivere nel maggio della riapertura, con i rumori dei cucchiaini e delle tazzine nei bar del Corso e il suono dei phon dai saloni di bellezza.

Cresceva la voglia di mostrarsi dopo essersi tanto nascosti.

Non so se a gennaio avrei indossato ancora la mascherina, ma ti avrei mimato i vari modi comici con i quali la portavano coloro che via via ho incontrato durante le file alla Coal. Ero stata scelta per fare la spesa una volta a settimana. All’inizio perché, nonostante la mia proverbiale ipocondria che avresti conosciuto dalle reazioni al tuo primo starnuto, ostentavo un’antipatica leggerezza, considerando troppa esagerata la richiesta di contingentare le uscite alla necessità, quindi mi imponevo di mantenere almeno quella garantita. Ero anche curiosa di osservare i comportamenti degli altri. Quando però, la mattina di un lunedì intuii il terrore negli occhi della cassiera del nostro piccolo supermercato, compresi che il rispetto delle regole sarebbe diventato la sopravvivenza. La mia inutile sciarpa di seta sul viso per entrare mi fece sentire quasi nuda. Appena rientrata, mi misi a cercare in internet ogni dispositivo necessario: disinfettanti, guanti e soprattutto mascherine. Le trovammo grazie ad un’impresa locale che, come fecero in molte, cambiò l’oggetto della propria produzione per adattarsi alle nuove esigenze. Acquistammo dei curiosi becchi di papero in tessuto prima utilizzato per rivestire divani. In poco tempo divenne un oggetto di moda anche quello: c’era chi l’aveva colorata, chi personalizzata con le iniziali, chi in tessuto aderente, vennero inventate quelle trasparenti per consentire di leggere il labiale ai sordomuti.

Avrei agitato le mani e utilizzato ogni espressione delle labbra anche io per illustrarti quando il carnevale senza scherzi durò oltre novanta giorni. Forse proprio in un impeto anarchico a quel punto ti avrei preso per tenerti tra le braccia: il gesto più vietato e difficile da trattenere. Un passo di danza come quello che sembrava facesse zia Anne in una foto che ho conservato: stringeva sè stessa, sperando di fare raggiungere me dal calore che non poteva trasmettermi direttamente. Quanto è stata dura non sfiorare nemmeno la mano di nonna Lucia, quando aumentava il terrore che potesse contagiarsi! Tanto fragile, ma ortodossa e determinata, aveva rispettato ogni disposizione e superato pure la pandemia. Avrebbe accolto la notizia del tuo arrivo, travolta dall’ansia, per poi consegnarmi la certezza che avrebbe trovato il modo di aiutarmi.

Non sarebbe stata la sola, so che avrei potuto contare anche su coloro che sono stati i miei eroi di quei mesi. Viola e Luca come pure Francesco, Valeria Luce e tutti i bambini poco o più grandi di te che hanno resistito e si sono inventati una nuova fantasia. Hanno visto la realtà dalla finestra per novanta mattine, pomeriggi, sere con il sottofondo delle ambulanze, continuando a creare avventure e mondi segreti tra il tavolo e il divano. Le risate dei loro amici erano suoni meccanici dallo schermo, come pure le voci delle maestre e dei parenti lontani: temo si siano abituati a perderne la musicalità per tenere il contatto. Avrei sussurrato, in quel momento che non c’erano, mentre recuperavamo abbracciate la strada verso il centro, che per te, nella città della musica, avrei voluto solo note di violino o pianoforte sfuggite libere dalle finestre del Conservatorio. Mi sarei un po’ rattristata, pensando alle anime allegre e creative di artisti che ci avevano lasciato in quei giorni. Magari avremmo visto un nonno o una nonna spingere un’altra carrozzina, avrei dedicato loro un sorriso sincero, quello che non abbiamo potuto rivolgere ai tanti meravigliosi anziani, patrimonio di memoria, scivolati via nel silenzio, tra le distanze.

Arrivate a via Rossini, però, sarebbe tornato il buonumore: qui ci siamo riviste, senza barriere, io e zia quando abbiamo consegnato le mascherine come volontarie del comune. Pioveva, finalmente una scusa per stringerci sotto l’ombrello. Non c’era ancora nessuno nelle strade, suonavamo ai citofoni e ci aprivano grati, facendoci scoprire altre prospettive di cortili e di sguardi. Io e zia all’inizio avevamo fatto confusione, poi eravamo partite spedite, tornando a casa stanche, ma felici.

La gioia sarebbe stata l’emozione con cui avrei concluso la nostra prima passeggiata in città, magari davanti scuola a prendere Luca, sperando che avessero trovato un modo per riaprirle in armonia. Dipinte sui vetri delle classi della Carducci, ti avrei fatto vedere i disegni degli alberi con la neve, finalmente sarebbero stati coerenti, non come a maggio, dove rimasero impressi, nonostante fossero fioriti i gelsomini nella strada. Tuo fratello avrebbe avuto l’irresistibile espressione scocciata che aveva già all’asilo dopo aver trascorso quattro ore fermo in un’aula e senza play station. Avremmo aspettato al portone, il ritorno di Viola dalle medie. Fin dall’inizio di Via Morselli si sarebbe percepita la sua voce confusa a quella delle sue amiche: ti avrebbe preso subito per mostrarti loro e insegnarti qualche espressione buffa. Forse a casa avremmo trovato papà che non deve più stare fuori tutta la settimana, ma almeno due giorni può addirittura pranzare con noi, tentando di mantenere la dieta.  

Avremmo, sarebbe, forse…

Ho accarezzato la pancia e ti ho salutato una mattina di sole di giugno, quando ho capito che non saresti arrivata. Sono onesta ho tirato anche un sospiro: non so se avrei trovato la forza per quelle notti, la pazienza per i pianti, la cura per i giorni. Avrei avuto però tanto da raccontarti sui mesi nei quali abbiamo provato paura, ansia, nostalgia, distanze e voglia di stare insieme, di nuovo. Saresti stata il pensiero di luce che racchiude la speranza anche nelle storie più buie.

Ah: abbiamo preso un gatto, rosso, non un cane, chiamato Zorba in onore di un eccezionale scrittore che in quei novanta giorni se ne è andato, lasciandoci un patrimonio di parole e di gioia.

Per il sorriso di Ahlam

Il sogno di Ahlam è studiare: studiare in Italia per riscattare il proprio destino ed affermarsi come donna indipendente.

Per aiutare a realizzarlo, si può contribuire alla raccolta lanciata dai reparti ospedalieri dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna.

Ahlam ha 18 anni. A 14 ha lasciato Baghdad: è fuggita poco prima che nel suo paese iniziassero i bombardamenti. Da sola, nonostante avesse una grave deformazione della colonna vertebrale, è salita su un barcone e ha affrontato il viaggio fino in Sicilia. Da alcune settimane è ricoverata nell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna dove è stata sottoposta a due interventi.

Ancora non si sa se riuscirà a tornare a camminare, ma non si arrende. Il suo sorriso, espressione di una forza che ama la vita più del dolore, colpisce chi l’ha curata. Il dottor Gisberto Evangelisti, medico chirurgo, ha condiviso questa emozione inattesa.

Giorni fa le ha chiesto come stesse, come procedesse la fisioterapia, Ahlam ha risposto, gioiosa:

“tutto bene dottore! Leggo molti libri, così non penso troppo e passo il tempo. Sai cosa mi piacerebbe? Imparare a suonare il pianoforte!”

Chi convive con la sofferenza, provando quotidianamente ad alleviarla, sa cosa significa ricevere un dono di speranza. La Onlus Agito, che si occupa principalmente di sensibilizzare sui tumori ossei rari degli adolescenti e di migliorare le condizioni psicofisiche dei pazienti durante le cure, si è mobilitata immediatamente: ha messo a disposizione di Ahlam una pianola e una app per ricevere lezioni di musica.

La presidente Sabrina Bergonzoni, ha precisato:

questa attività è fuori mission, poiché Agito si è costituita per attività di supporto ai pazienti oncologici, quindi non è stata sostenuta dall’associazione, ma volontariamente da alcuni soci. Perché siamo umani.”

I volontari non sono i soli che vogliono aggiungere altri capitoli di riscatto e bellezza alla storia di Ahlam: troppe le pagine di dolore, solitudine e paura. I due reparti, chirurgia del rachide e chirurgia vertebrale oncologica che l’hanno accolta, curata, quasi adottata, hanno pensato di organizzare una raccolta per creare un piccolo fondo per lei.

Chiunque può contribuire.

Il periodo storico che stiamo attraversando è difficile, ma condividere la prospettiva di una giovane donna che non ha perso il sogno nemmeno dopo aver vissuto gli incubi reali, può nutrire la speranza di tutti.

La salute presente e futura di Ahlam è ancora incerta, ma lei vuole studiare, provare a diventare un medico, accompagnata dalla musica.

Non conosciamo molto altro della sua storia e abbiamo paura a chiedere, ma confidiamo nel tempo di raccogliere qualche altro tassello di un puzzle tanto complesso grazie alle lezioni musicali a distanza. Intanto abbiamo visto un sorriso meraviglioso che per ora preferiamo non condividere ma, fidatevi, scaldava il cuore.”

Scrivono nell’appello, coloro che hanno assistito alla semplice magia della forza d’animo di questa ragazza di Baghdad.

Ahlam, intanto suona dal suo letto d’ospedale: sono note di una sinfonia che possiamo comporre insieme per sentirci meno soli e restare umani.

Angel

“Non scapperemo, ma non versate il nostro sangue!”

Kyal Sin, soprannominata Angel

Correva per la vita libera del suo popolo. Era convinta, come lo si è a 19 anni, che sarebbe andato tutto bene, tanto da indossare l’auspicio sulla sua maglietta.

Kyal Sin, soprannominata Angel, la portava anche mercoledì 3 marzo, quando è stata uccisa durante un corteo a Mandalay, la seconda città del Myanmar. Le hanno sparato alla testa, mentre insieme a moltissimi, coetanei e non, protestava per chiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi, presidentessa, democraticamente eletta, destituita da un colpo di stato.

Da settimane a chi lotta per il ripristino della legalità e per la pace, risponde una repressione durissima.

54, la cifra che il regime ha fatto filtrare, sarebbe il numero dei morti.

Kyal Sin non voleva certo essere tra questi, ma consapevole dei rischi, aveva scritto i dettagli del suo gruppo sanguigno su Facebook e chiesto che i suoi organi fossero donati nel caso fosse morta.

“Se non sono in buone condizioni non salvatemi, donate i miei organi e contattate mio padre”.

Kyal Sin era una ballerina e praticava arti marziali. Al suo funerale in migliaia l’hanno accompagnata: simbolo di una rivolta dimenticata nel rumore del mondo, angelo di chi continuerà a portarla avanti.

 19 anni, amava la vita, correva per la libertà, non l’hanno fermata i proiettili: il suo cuore batterà nel petto di un altro.  

Non dimentichiamola!

Di fatto uguali

“Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, non vogliamo che le donne italiane aspirino ad una assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere le proprie forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese.”

Teresa Mattei, costituente

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

E’ tutto nell’articolo 3 della Costituzione, alla cui redazione hanno contribuito fortemente 21 donne, tra cui Teresa Mattei la più giovane donna eletta all’Assemblea Costituente. E’ lei che volle venisse aggiunta la locuzione rafforzativa “di fatto”.  

Per celebrare la Giornata internazionale per i diritti della donna, provando a superare l’odiosa retorica della festa, che da festeggiare non c’è proprio nulla, scelgo le parole della partigiana “Chicchi”: traccia da non dimenticare e diffondere.

Teresita Mattei, nata a Genova, il 1° febbraio 1921, a 17 anni, venne espulsa dal liceo classico Michelangelo di Firenze e radiata da tutti gli istituti del Regno perché, dopo aver ascoltato in classe l’intervento del professor Santarelli, inviato nelle scuole a far propaganda razzista, si alzò in piedi e disse: «Io esco perché non posso assistere a queste vergogne». Combattente dei nazi fascisti nei Gap, si laureò in filosofia il 3 giugno del 1944, in fuga dai tedeschi dopo aver fatto saltare in aria un convoglio carico di esplosivo nascosto in un tunnel. In prima fila a battersi per i diritti delle donne. C’è lei dietro la mimosa diventata il simbolo della festa delle donne: “Scegliamo un fiore povero, facile da trovare nelle campagne” suggerì a Luigi Longo nel lontano 8 marzo 1946, insieme a Teresa Noce e a Rita Montagnana.

Nel Comitato dei 18 che, il 27 dicembre 1947, consegnò nelle mani del Capo dello Stato, Enrico De Nicola, il testo della Carta Costituzionale.

Questo il suo intervento in aula da far stampare e imparare a memoria a figlie e nipoti (ringrazio il sito della Fondazione Nilde Iotti da cui l’ho tratto).

“Noi salutiamo quindi con speranza e con fiducia la figura di donna che nasce dalla solenne carta costituzionale nazionale. Nasce e viene finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquista pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica. Ancora poche Costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. Le donne italiane lo sanno e sono fiere di questo passo sulla via dell’emancipazione e insieme dell’intero progresso civile e sociale. E’, questa conquista, il risultato di una lunga e faticosa lotta di interi decenni. […] In una società che da lungo tempo ormai ha imposto alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro, in una società che ha fatto conoscere alla donna tutti quei pesi di responsabili e di sofferenza prima riservati normalmente solo agli uomini, che non ha risparmiato alla donna nemmeno l’atroce prova della guerra guerreggiata nella sua casa, contro i suoi stessi piccoli e l’ha spinta a partecipare non più inerme alla lotta, salutiamo finalmente con un riconoscimento meritato e giusto l’affermazione della completa parità dei nostri diritti. […] La nostra esigenza di entrare nella vita nazionale, di entrare in ogni campo di attività che sia fattivo di bene per il nostro paese, non è l’esigenza di affermare la nostra personalità e qui contrapponendola alla personalità maschile. […] Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, non vogliamo che le donne italiane aspirino ad una assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere le proprie forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese. Perciò riteniamo che il concetto informatore della lotta che abbiamo condotta debba stare alla base della nostra nuova Costituzione, rafforzarla, darle un orientamento sempre più sicuro. E’ nostro convincimento che nessun sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile”.

Fragilità in sfida

Ragazzi di nuovo fermi in casa contro anziani da due anni reclusi; malati spaventati contro disabili e caregivers terrorizzati; lavoratori in crisi contro medici esausti. La gestione del virus spariglia: mette in gara le debolezze della società in uno scontro all’ultima salvezza. In fase di sconfitta la comprensione, la coscienza, la solidarietà.

Oggi è tornata a casa più tardi del solito: ha accompagnato alcune delle sue amiche; hanno registrato i loro video nei quali sono apparsi anche gli scherzi dei ragazzi per disturbarle. Il tempo si è distratto. Lo zaino pesantissimo, lo abbiamo preparato insolitamente insieme, assonnate, ridendo per la mia confusione sui colori dei quaderni, non l’ha dissuasa a correre per il corso quando si è accorta che era in effetti l’ultima a rientrare. Non l’ho sgridata, non lo faccio mai, al limite mi preoccupo, ma oggi non potevo proprio. .

Da domani Viola frequenterà scuola in didattica a distanza al 100%, lo ha comunicato il Presidente della Regione, senza precisare fino a quando. Data l’esperienza dell’anno passato, i lunghi saluti calorosi alla normalità ci stavano tutti.

Non voglio partecipare al coro, ormai retorico, di quanti recitano l’inno delle sofferenze dei ragazzi, privati della quotidianità scolastica. So che da domani rivedrò mia figlia vestirsi, pettinarsi per accendere il computer e nascondere il suo viso assonato dietro ad una lettera colorata sullo schermo, sostituta della mascherina. All’inizio fingerò di non carpire la sua inevitabile distrazione, se poi dovessi arrivare ad assistere al suo ciabattare stanco, costante, interverrò con incitazioni sociologiche e riferimenti a imparagonabili paralleli storici. Accetto che questo ennesimo passaggio surreale faccia parte della realtà che stiamo tentando di superare da più di un anno. Avrei preferito si trovassero alternative, ma non casco nella trappola in cui stiamo precipitando, molti inconsapevoli: la gara per vincere il diritto a lamentarsi di più.

Ho passato gli ultimi sei mesi, frequentando reparti ospedalieri insieme a mia madre, temendo per lei e ringraziando costantemente ogni singolo rappresentante del sistema sanitario. Li ho osservati: al lavoro senza sosta e respiro, chiusi in tute, camici e svariate mascherine, senza mai abdicare alla professionalità. Ho raccolto e seguo con costanza le testimonianze di amici e amiche terrorizzate dalle conseguenze dell’attacco del virus su figli o genitori cagionevoli, immunodepressi, disabili, costretti a chiedere l’ovvio, ossia che siano vaccinati insieme ai cari che assistono. Ho pianto per chi non ce l’ha fatta: tanti, troppi uomini e donne dalla storia semplice o incredibile, interrotta bruscamente da quella che doveva essere una banale influenza. Provo angoscia per chi ha perso il lavoro, sta cercando di non chiudere la propria attività, di continuare a credere nel proprio percorso e talento: dignitosamente vanno avanti, nel rispetto delle regole e di sè stessi. Vivo il cambiamento continuo delle abitudini mie, del mio compagno e dei miei figli, disabituati ormai a contatti senza filtri, in dubbio sull’opportunità di una passeggiata, uniti più che mai in gruppi ristretti, con la nostalgia, senza confini, dell’ampiezza umana persa.

Ieri mi ha chiamato un’amica per chiedermi come avessi fatto per prenotare il vaccino per mia mamma: voleva procedere per assicurare una dose al più presto al marito affetto da una malattia rara. Senza rendercene conto, nei nostri vocali, abbiamo innescato una pacifica competizione a chi avesse più motivi per superare l’altro vaccinando. Una patologia cardiovascolare vale meno di una oncologica che però scavalca la rara e forse anche la disabilità ( se non altro per la mancata consapevolezza nei riguardi delle ultime due voci). Abbiamo concluso, spaventate, che speriamo di dimenticare come ci ha trasformato questo lungo periodo.

Pensavamo di essere diventati tutti più consapevoli, legati da una fragilità condivisa, ma non uguale. Colpisce, invece, forte l’ineluttabilità del male che ci ha resi ancora più egoisti, ignoranti, superficiali e chiusi.

Oggi era l’ultimo giorno di scuola in presenza per Viola fino a quando non si sa: alla quarta ora li hanno portati in palestra per sottoporli al tampone di controllo. E’ un servizio dato dal Comune di Pesaro, ma anche una lezione di educazione civica: la comunità scolastica controlla se al suo interno ci siano possibili portatori di contagio da tutelare e da isolare per proteggere gli altri. Alcuni genitori ieri chiedevano se avesse senso farglielo fare : “tanto poi da sabato staranno a casa!” . Temo siano gli stessi che continuano a chiedere perché non si possano nemmeno far venire a pranzo gli amichetti o farli incontrare per un po’ di svago, “poveri figli!”.

“Sai mamma, è la prima volta che non sono felice di non andare a scuola: mi mancheranno i miei compagni. Stare con loro: abbiamo i sorrisi coperti da tempo, ma percepiamo il rumore della risata; provare a suggerire durante le interrogazioni con il linguaggio dei segni; persino confrontarci con i professori, soprattutto con quelli che ci chiedono come stiamo e vogliono sapere veramente la risposta. Speriamo duri meno dell’anno scorso e che prestino un computer a R. : durante la quarantena, a novembre, non ha seguito nemmeno un’ora. Almeno potrò andare a trovare nonna, visto che sono negativa.”

Trattengo la malinconia, lasciando il passo alla tenerezza e all’orgoglio davanti alla conferma che non sono gli adolescenti o i colleghi più giovani, i presunti perdenti in questa assurda partita, anzi ci guidano, mirando all’unico vero avversario, per arrivare almeno ad un pareggio, senza lasciare a terra chi è più debole, solo, indifeso, fragile.   

Per loro, tra l’altro, ancora non è stato sintetizzato un vaccino specifico.

Con lo sguardo e le parole di Lucio

“Vorrei volare sopra i tetti della città, incontrare espressioni dialettali, fermarmi sopra il naso dei vecchi mentre leggono i giornali” 

Lucio Dalla, Le Rondini

Da oggi anche Bologna è zona rossa: chiusi scuole, bar, ristoranti, negozi. La città è spaventata, il virus è tornato a colpire più forte della prima ondata. Il 4 marzo è la data scelta per fermarsi: per provare a riprendere il respiro. Lo stesso giorno in cui, nel 1943, in piazza Cavour numero 2, nacque chi ha reso immortali strade, colori ed emozioni: Lucio Dalla. Viene voglia di credere che l’amore di chi ha vissuto e cantato intensamente l’anima della dotta, possa proteggerla e diffondere il potere di rinascita nel resto del paese. La memoria della sua genialità proverà a farlo, a partire alcuni luoghi della città resa spettrale dal blocco.

Fondazione Lucio Dalla, insieme al Comune di Bologna, a Bologna Welcome, a Confcommercio Ascom e al Consorzio degli Esercenti di Via D’Azeglio Pedonale, hanno deciso di condividere un omaggio che consentirà di incontrare Lucio “in giro per Bologna”, attraverso una serie di scatti del 1967. Grandi manifesti con tre soggetti straordinari messi a disposizione per l’iniziativa dall’Archivio Pressing Line per unire la città in un sorriso: l’intento è portare un poco di leggerezza in un momento tanto pesante per tutti. Gli esercenti, gli stessi o gli eredi dei posti frequentati nelle passeggiate quotidiane da Dalla, hanno abbassato la saracinesca, ma sulle vetrine, spente, sarà affissa la fotografia di chi li ha raccontati in un verso.  Inoltre, grazie alla partecipazione di Galleria Cavour le immagini verranno proiettate sul maxi schermo del cuore dell’eleganza bolognese tra il 4 e il 7 Marzo, accompagnate dalle canzoni, colonna sonora della Galleria in queste giornate.

Andrea Faccani, Presidente di Fondazione Lucio Dalla, ha descritto cosa ha portato alla scelta di questa modalità di ricordo: “in attesa delle condizioni che ci consentiranno di realizzare le tante attività progettate e sospese per la situazione sanitaria, abbiamo dato vita ad un’iniziativa che consentisse a Lucio di essere comunque presente in tutta la Città, suscitando nei bolognesi il ricordo delle tante volte in cui lo hanno incontrato a passeggio o fermo ad osservare e magari ad immaginare una canzone che avrebbe raccontato le loro vite”.

Bologna c’è stata dall’inizio alla fine della storia artistica e umana del cantautore. In un contesto di distruzione che aspettava la fine della guerra nasceva come uno speciale “Gesù bambino”. Con questo titolo, considerato eccessivo per i tempi, cantò per la prima volta un inno memorizzato da generazioni, nel Teatro Duse. Era il 1970. Alla sua piazza Cavour dedicò, invece, Piazza Grande, raccontandola come il rifugio per chi dorme sull’erba e per gli innamorati, in una città nella quale “non si perde neanche un bambino almeno che non sia di Berlino”. L’ironia vivace degli arancioni intensi delle facciate dei palazzi con il sole che scherza attraverso i portici, brilla nei testi, resi indimenticabili dalla voce che continua a risuonare nella testa e nel cuore di chiunque ne percorra le rumorose e allegre geometrie.

Bologna luogo dell’anima per studenti e viaggiatori, culla della cultura, del diritto e della gastronomia. Semplice e complessa da scoprire, impossibile da dimenticare.

I piccoli gesti quotidiani si fanno rime.  

Vorrei girare il cielo come le rondini

E ogni tanto fermarmi qua e là

Aver il nido sotto i tetti al fresco dei portici

E come loro quando è la sera chiudere gli occhi con semplicità

La speranza è certezza nelle poesie cantate, come nell’Anno che verrà. Le parole della canzone con cui si sono salutati pure i 365 giorni peggiori del nuovo secolo con fiducia, hanno illuminato le vie del centro durante il Natale del 2018. Grazie all’asta con cui sono state vendute una volta dismesse dalle strade, si è potuto restaurare il reparto day hospital di oncologia del Policlinico Sant’Orsola. Nuove illuminazione, porte, arredi per due sale d’attesa e di terapia, insieme alla realizzazione di stanze-giardino sui balconi con 90 fioriere e impianto per la diffusione della musica nelle sale, hanno ottenuto l’obiettivo di rendere accogliente un posto nel quale circa 150 pazienti, ogni giorno vengono visitati e curati.

Illuminare il buio riempiendo irreali silenzi. Lucio ci è riuscito anche nel Natale più oscuro che non solo Bologna ricordi. La sua Futura ha acceso via Massimo D’Azeglio, grazie alle installazioni realizzate dall’artista Pablo Echaurren. Uno dei tanti amici che la città ha unito davanti ad un bicchiere di vino e un piatto di gramigna al sugo di salsiccia, gustati nelle osterie mitiche che presto torneranno a diffondere profumi nell’aria.

In questo 2021, iniziato incerto, la Fondazione Lucio Dalla ha voluto ricordare una di queste amicizie tra bolognesi speciali nel documentario “Imprendibili” , nel quale si racconta del legame tra Dalla e Massimo Osti, designer, stilista innovatore, fondatore di marchi storici come la Stone Island. Realizzato da Fondazione Lucio Dalla insieme a C.P. Company, verrà pubblicato da oggi 4 marzo sui canali FLD e C.P. Company (50.cpcompany.comwww.fondazioneluciodalla.it).

Sodalizi umani e artistici che, prima della diffusione del virus, rivivevano nelle sale della Casa Dalla, l’ultima abitazione del cantautore nella quiete di Piazza dei Celestini, resa museo dalla Fondazione. Qui, interpreti, autori, suoi colleghi, collaboratori, allievi ed eredi si sono ritrovati da quel maledetto 2012 che lo ha portato via, per rinnovarne la memoria attraverso la condivisione della meraviglia dell’arte.

I più giovani lo faranno anche oggi con Back to futura, progetto prodotto dall’Associazione Culturale per gli Incontri Esistenziali insieme a Fondazione Lucio Dalla, con il sostegno di Illumia. Esponenti della scena musicale italiana contemporanea, scelti per ricchezza ed originalità della proposta artistica, dialogheranno dalle stanze della casa del Maestro, con il giornalista musicale Luca Franceschini: il confronto sarà arricchito da set acustici.  Stasera alle 21 sul canale You Tube Incontri Esistenziali (https://www.youtube.com/channel/UCvlv0SgVb0sLWCNeGfzX0wQ) ci saranno come protagonisti Bonetti, svegliaginevra, Apice ed Elasi.

Memoria e futuro: i due regali che Lucio ha lasciato non solo alla sua amata città. Doni che mai come in questo periodo confortano. In una delle sue ultime canzoni, sembrò voler salutare le sue piazze, le strade, le abitudini:

Cantava in Dark Bologna:

Lungo l’autostrada da lontano ti vedrò

ecco là le luci di San Luca

entrando dentro al centro,

l’auto si rovina un po’, Bologna, ogni strada c’è una buca

Per prima cosa mangio una pizza da Altero

c’è un barista buffo, un tipo nero

Bologna, sai mi sei mancata un casino.

“Mentre qui tutto il mondo sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio“, da Bologna, incontrando lo sguardo ironico di Lucio, ascoltando la sua voce, verrà voglia di far credere all’intero paese che “ritornerà la luce, sentiremo una voce e potremo aspettare senza avere paura, domani.

Le donne che raccontano le donne

“Mantenere alta l’attenzione sul potere femminile di muovere il mondo, anche nei mesi più difficili. Questo è il piccolo contributo che vogliamo portare, organizzando e celebrando la forza delle donne, espressa attraverso la scrittura.”

Wanda Tramezzo, presidente del Premio Internazionale La Donna si Racconta

Spazi liberi, gestiti da semplici regole, dove sprigionare e mettere alla prova la creatività lirica e narrativa: i premi letterari. Tre anni fa decisi di partecipare alla mia prima competizione, da scrittrice, insieme alla mia amica Nikki Guelfi. Conoscendo bene le sue quotidiane battaglie al femminile per il riconoscimento e la difesa dei diritti, scelsi per il nostro libro “La Zampata della Tigre”, il Premio letterario internazionale “La donna si racconta”. Il pomeriggio del 28 ottobre del 2018, nel Teatro Sperimentale di Pesaro, durante la cerimonia di premiazione, ero così presa dalla responsabilità di aver sottoposto al giudizio di una giuria il racconto intimo della malattia di Nikki, che non riconobbi subito le pagine recitate. Fu la fedele Anne a distogliermi: “guarda che è la Zampata!” Salii a ritirare la targa con un impeto proprio della vittoria di un Oscar: ringraziai l’organizzatrice, Wanda Tramezzo, la giuria e soprattutto Nikki che, tra le tante emozioni, mi aveva donato anche quella. Nei mesi successivi, prima che dilagasse il virus, Wanda, scrittrice, poetessa, presidente del Premio dal 2008, mi chiese di entrare nell’organizzazione della XXI edizione. Ci sono stati degli incontri con le altre donne coinvolte, scambi di opinioni e racconti, da cui è emersa, ancora più chiara, la storia e il radicamento dell’iniziativa nella mia città di adozione. Trasmisi le sensazioni, orgogliosa, a Nikki, aggiungendo che avrebbe potuto concorrere con il seguito del nostro libro a cui stava lavorando. A marzo abbiamo capito che non avremmo potuto gestire nessun evento pubblico di presentazione o di premiazione; che sarebbe stato complesso coinvolgere le scuole, nel frattempo chiuse; impossibile far arrivare ospiti da fuori ed estendere il bando oltre i confini nazionali. A luglio Nikki ci ha lasciato, aprendo vuoti dell’anima incolmabili, come a decretare, con il suo saluto discreto al mondo, il reale fermarsi di emozioni e prospettive nel cuore di coloro che continuano ad amarla. Quando Wanda, due settimane fa, ha inviato una mail nella quale comunicava che il Premio stava ripartendo, ho percepito un altro segnale di come la forza delle persone meravigliose rimanga in chi ha avuto il privilegio di stare loro accanto. Quasi con lo stesso piglio con cui salii sul palco il 28 ottobre del 2018, ho risposto a Wanda che ero pronta anche io a lavorare per l’edizione diventata triennale, anzi le ho chiesto di raccontarmi la traccia che in questi anni ha deciso di imprimere ad un evento che non si arrende alla terza ondata, accogliendo nuovamente la volontà di condividere sentimenti, gioie e dolori, dalla voce alle pagine. Il Premio Internazionale “La Donna si racconta” ed il Premio “Juniores Study”, ritornano, promossi dall’associazione culturale “La donna si racconta” con i patrocini di Fidapa Bpw Italy, del Consiglio regionale delle Marche, della Provincia di Pesaro e Urbino, del Comune di Pesaro e dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, in collaborazione con l’emittente televisiva Rossini TV. C’è tempo fino al 15 aprile per inviare la propria opera. La presidente, Wanda Tramezzo, spiega perché è importante non farsi più fermare dalle difficoltà che verranno superate, come le donne sanno sempre fare.

La traccia: Il Premio La Donna si racconta

“Ho sempre coltivato la passione della scrittura, anche mentre facevo un altro lavoro. Non ho rimpianti perché non ho mai negato il mio amore per le parole scritte e lette. Quando ho potuto, ho lasciato la mia professione per dedicarmici completamente, sia scrivendo, sia promuovendo autrici.”

“Sono grata ad Anna Mici, fondatrice del Premio “La Donna si racconta” che decise di affidarmi la sua creatura. La misi subito in mani sicure, organizzando la mia prima edizione con la FIDAPA, (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari) di cui aprii una sede a Pesaro. Era lo stesso anno in cui pubblicai la mia raccolta di poesie Come le foglie al vento edito da Neftasia (nel 2017 Wanda ha pubblicato Il Posto delle Fragole Verdi con Linea Edizioni ndr). Ho sentito, forte, la responsabilità di una iniziativa storica e molto radicata nella città, ma con una prospettiva internazionale, per questo decisi di rendere il premio biennale: avevo bisogno di maggior tempo e possibilità di raccogliere adesioni.”

“La ventunesima edizione purtroppo è diventata triennale, a causa del virus che ha impedito potessimo realizzarla nel 2020. Quest’anno, però, non ci fermeremo: con la giuria abbiamo deciso di partire con il bando, prevedendo una premiazione all’aperto a fine maggio o più probabilmente d’estate.”

Il Premio mantiene la sua caratteristica internazionale: possono partecipare donne italiane o straniere con una o più opere edite o inedite a tema libero nelle sezioni “Poesia” e “Narrativa”. E’ previsto anche un “Premio speciale della Città di Pesaro” per elaborati di alto contenuto culturale/ umanitario. Il riconoscimento “Juniores Study” (Sezioni “Narrativa” e “Poesia”) è, invece riservato a studenti e studentesse delle scuole secondarie di primo e secondo grado delle Marche e vede anche la collaborazione della “Rete di scuole di Pesaro e Urbino” nella divulgazione. Nella stessa sezione sono compresi anche due premi speciali “Premio Città di Pesaro” da assegnare a studenti e studentesse che presentino un elaborato di narrativa o poesia sul tema: “Confrontarsi su ciò che sta succedendo, fornendo un’interpretazione del clima e del momento, all’interno di un universo interconnesso e globale”.

“Mi ha colpito come, non appena sia girata la notizia, mi abbia iniziato a squillare il telefono: tante le interessate ad avere maggiori informazioni e a voler partecipare. Per motivi logistici, legati alla sicurezza, non riusciamo a far arrivare le autrici dall’estero: negli anni passati organizzavamo anche questo, grazie ai rapporti di collaborazione con le ambasciate. Non vogliamo rinunciare agli studenti delle scuole medie e superiori della Regione. Stiamo cercando di capire come superare le difficoltà poste dalla DAD, ma ci teniamo proprio a conoscere come le ragazze e i ragazzi stiano vivendo e riportando questo periodo.”

“Sono felice che tra le prime a chiamarmi e inviarmi la loro opera siano state un gruppo di infermiere di un ospedale del Nord. Hanno raccontato con spontaneità le giornate a stretto contatto con il virus, i malati e le famiglie. Era la prima volta che scrivevano. Leggerle è emozionante, come lo è capire quanto, nella scrittura, molti abbiano proiettato ciò che mancava anche a livello mediatico: il senso di leggerezza e di gioia. I racconti e le poesie, finora ricevute, hanno un tono di spensieratezza che rende appieno la necessità di sfuggire all’angosciante quotidianità.”

“Il mio sogno di scrivere in un giardino pieno di fiori si è realizzato, anzi ha rappresentato il modo attraverso il quale ho resistito e sto resistendo durante questi mesi di chiusura. Scrivo nella mia casa in collina, raccontando le mie sensazioni in quelli che diventeranno, a breve, un nuovo libro di poesie ed uno di narrativa. Ho percepito come sia stata una strada percorsa anche da altri: rifugiarsi nelle parole, veicolo degli stati d’animo. “

“Nell’ultima edizione avevamo aperto anche agli uomini che scrivono delle donne, ma questo aspetto, benchè ci avesse piacevolmente sorpreso per la sensibilità trovata nei testi proposti, non lo abbiamo ripreso. Vogliamo che ci sia attenzione e visibilità massima sulle donne. Normalmente organizzavamo convegni e momenti di riflessione puntuale sul tema della violenza, purtroppo mai attuale quanto oggi. La sensazione angosciante è che non si siano fatti passi avanti rispetto ad una mentalità patriarcale che si rifà al delitto d’onore. Alcuni uomini continuano a considerare compagne, mogli, figli come oggetto di possesso senza rispetto. Non c’è mattina che non preghi per i bambini e le donne, vittime della violenza barbara di coloro che dicevano di amarli. Vorrei una legge con delle pene severe fino all’ergastolo per chi si macchia di questi orribili delitti. Abbiamo riflettuto sul modo per inserire anche in questa edizione il tema che è stato centrale in molti testi ricevuti nelle edizioni passate: storie vere che muovevano l’anima. Ho paura che ne arrivino. Temo però, allo stesso tempo, che ci sia uno stato di sottomissione delle vittime, soprattutto a livello economico, per cui si sentano sconfitte in partenza rispetto al proprio carnefice. Chi denuncia percepisce segnato il proprio destino, al punto che non si ha più la forza nemmeno di raccontare. Lo Stato deve fare di più, invece: offrire un reale percorso alternativo di emancipazione e di salvezza per le donne e per i loro figli.”

“Noi vogliamo dare il nostro piccolo contributo, centrando l’attenzione sui sentimenti emersi dagli scritti delle donne, motore del mondo anche durante questi mesi così difficili. Non sarà una edizione semplice, ma questo obiettivo ci motiva a superare ogni possibile inciampo. Sarà un’altra testimonianza del potere femminile. Serve ribadire come le donne siano coloro che modificano e salvano l’uomo.”

“Finchè potrò, mi dedicherò al premio, poi troverò a chi passare il testimone: colei che sarà pronta a riceverlo con pari passione ed impegno. Per il momento sto raccogliendo le adesioni e predisponendo i premi: sono aspetti collegati. Mi piacerebbe coinvolgere anche gli alberghi per consegnare alle vincitrici un soggiorno a Pesaro non appena si potrà tornare a villeggiare con serenità. Non mancheranno i buoni della libreria Campus Mondadori per gli studenti. Viaggi reali e della mente per rimanere connessi e continuare ad evadere attraverso la scrittura.”

La traccia volante: “Non vi è una sosta se non sulla cima.” E’ una frase che mi porto dietro dalle mie letture di autori russi nel periodo adolescenziale. La scrivo nella pagina iniziale di ogni mia agenda e diario. La cima non l’ho ancora raggiunta, continuo a cercarla.

Blog su WordPress.com.

Su ↑