Mare fuori che resta dentro

Questa sera su Rai due iniziano le puntate della terza stagione della serie, ideata da Cristiana Farina. Gli affezionati dalla prima, come chi scrive, le hanno già viste tutte e dodici su Rai play, bramando che al più presto ne vengano realizzate e trasmesse anche di più per la quarta. Ecco perché è necessario non perdere nemmeno una scena.

“Appiccio n’ata sigaretta

Allà ce sta mammà che chiagne, nun dà retta…”

Poche note, le prime parole e l’inno di ‘O Mare fore avvolge nelle trame delle storie che andrà a sottolineare. La musica traina nel microcosmo distante e intriso di realtà dell’IPM di Napoli. Dialoghi, silenzi, sguardi e suoni mettono lo spettatore al fianco dei protagonisti per soffrire i  dolori, sfidare le paure, condividere le emozioni e nutrire le speranze. Filippo, Carmine, Nadiza, Silvia, Viola, Edoardo, Pino, Rosa diventano ‘o chiattillo, ‘u piecuro, la zingara, la spesina, ‘o pazzo, soprannomi che sono marchi di vita, con cui inevitabilmente si finisce per identificarli, togliendo la valenza negativa, mantenendo la famigliarità del richiamo.

La serie Rai, ideata da Cristiana Farina è alla terza stagione, finalmente ottenendo il meritato successo che si deve ad un lavoro intenso di scrittura dei personaggi, direzione e interpretazione. La chiave sta in una miscela in cui gli occhi e i sentimenti si perdono e si ritrovano.

Chi pensa di vedere l’ennesima indagine sul disagio giovanile di una generazione preda dei miti della criminalità, narrata secondo la retorica del bene e del male in un clima di desolante rassegnazione o irreale risoluzione, viene spiazzato da un registro che non vuole innescare tifoserie, basate su abusati luoghi comuni.

Prima di tutto c’è Napoli, incantevole e maledetta protagonista, mostrata nei suoi angoli meno noti, dalle calette baciate dal sole, alle metropolitane scintillanti di arte; dalle terrazze affacciate sul dipinto del panorama ai cunicoli sotterranei nelle viscere della città. Non mancano i bassi desolati, i vicoli in cui si spara e la sontuose case dei boss, incastonate tra degrado e oro, ma si intrecciano in una mappa in cui si comprende come ogni percorso si possa inevitabilmente incontrare in un incessante scambio tra luci e ombre.

Napoli accompagna con le sue atmosfere fino a dentro il carcere, illumina il cortile e spia dalle sbarre con i suoi infiniti cieli di stelle e il sole riflesso nel mare.

Il mare è l’altra via maestra della sceneggiatura e della scenografia.

“Qua c’è ‘o mare fori, Genna’, a Milano no.” Dice Filippo, ‘o chiattillo, studente del conservatorio milanese finito per un assurdo caso del destino a scontare una pena per omicidio nell’istituto, dove in un anno conosce la vita, l’amicizia, l’amore, la sua destinazione, al punto da soffrire quando dovrà lasciarlo. “Tu portatelo dentro” gli risponde Gennaro, la guardia penitenziaria più anziana, mentre scende una lacrima.

Nell’IPM della serie si entra per colpe spesso indirette, causa di esistenze al margine, di famiglie assenti o troppo presenti; per solitudine o per emulazione, ma dentro nessuno viene giudicato colpevole: c’è un percorso neutrale costruito dalle ore precedenti l’arresto al momento in cui si svela la trama. La scrittura vale per i detenuti, come per gli educatori, per la direttrice e per il comandante.

Lo schema è unico e molteplice, originale, avvincente, abile ad invertire la logica prevista e prevedibile. Se all’inizio stride il fascino trasmesso dai più violenti e rispettati, dopo poche puntate si fa coerente l’emergere di un codice che si modifica. Non ci sono eroi o modelli di riferimento negativi e positivi, ma persone che crescono insieme. Non troviamo identità fisse e inscalfibili. I figli dei boss sono spavaldi, vogliono prevalere, sembrano avere la guerra nel DNA, poi diventano fragili, si spaventano, vogliono scappare da un destino scritto. Proprio in quel passaggio, che purtroppo per molti può essere fatale, si trasformano in esempi, degni di considerazione.

Allo stesso tempo gli adulti, dal personale del carcere ai genitori, si ergono, gridano, si inabissano, sussurrano, piangono e sorridono con “guaglione e guaglioni” che sono spesso i riferimenti in cui ritrovarsi e da cui far ripartire un percorso professionale o di vita.

Non sono i ruoli riconosciuti come i legami scritti nei certificati a guidare i rapporti. Si stringono amicizie che vanno oltre la fratellanza, nascono amori che stracciano le faide o stravolgono gli stereotipi, si scoprono le passioni e si rintracciano quelle perse.

Gli abbracci e i baci sono imprevisti, esplodono nel cuore con l’eguale forza dei proiettili e dei calci mai attutiti per esigenze di copione.

Qui sta l’alchimia di una serie che finalmente ha il meritato successo per arrivare a coetanei di Filippo, Carmine, Rosa, Silvia, vicini o lontani chilometri geografici e culturali delle loro storie.

Nulla va come pensiamo debba andare, ma tutto ci sembra procedere nel verso giusto per comprendere e partecipare ad una realtà vera che ha colori, sfaccettature, umori ed emozioni, gli occhiali limpidi attraverso cui essere osservata.

“Nun te preoccupà guagliò ce sta ‘o mare fore”, il verso cantato, ritmato, gridato da coloro a cui la rassicurazione è rivolta, arriva a smuovere la speranza di ognuno.

Questa sera su Rai due iniziano le puntate della terza serie, gli affezionati (come chi scrive) le hanno già viste tutte e dodici su Rai play, bramando che al più presto ne vengano realizzate e trasmesse anche di più per la quarta. Sarebbe necessario che si portassero nelle scuole i protagonisti, i bravissimi attori e coloro che hanno ispirato la scrittura dei loro personaggi perché c’è bisogno di scavare nelle sfumature del buio per trovare insieme una strada condivisa “‘aret’’e o sbarre o sott’’o cielo”.

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