In memoria di Giulio: Patrick libero!

Due storie che continuano ad intrecciarsi: la stessa voglia di dare il proprio contributo di passioni e di conoscenze al mondo. Uno sguardo uguale che speriamo continui a brillare a lungo e di nuovo libero negli occhi di Patrick e di tutti coloro che, seduti sulla panchina gialla, penseranno al sorriso aperto e sincero di Giulio. Senza mai dimenticare la ricerca di verità e giustizia.

Solo quattro giorni fa, il 25 aprile, a Reggio Calabria, sono state inaugurate due panchine parlanti speciali: una rossa, contro la violenza alle donne ed una bianca, alla memoria di Antonio Gramsci e di coloro che hanno lottato per la liberazione del paese. Partigiani, mai indifferenti, protagonisti della propria storia con coraggio e determinazione, come è stato Giulio Regeni. Per non dimenticare l’impegno costante nella ricerca della verità e della giustizia per la sua barbara uccisione in Egitto nel 2016, è stata posizionata un’altra panchina, gialla: a Lecce davanti all’Università. Insieme al Comune hanno partecipato al progetto una rete di organizzazioni, attive in numerose iniziative di sensibilizzazione nel territorio: Amnesty International Lecce, Conversazioni sul futuro, Diffondiamo Idee di Valore e Lecce Città Pubblica.

Il capoluogo del Salento è andato oltre i simboli, per unire le forze nella difesa di un altro giovane cittadino in lotta contro un’ingiusta detenzione, ha concesso la cittadinanza onoraria a Patrick Zaki. Due storie che continuano ad intrecciarsi: la stessa voglia di dare il proprio contributo di passioni e di conoscenze al mondo. Uno sguardo uguale che speriamo continui a brillare a lungo e di nuovo libero negli occhi di Patrick e di tutti coloro che, seduti sulla panchina gialla, penseranno al sorriso aperto e sincero di Giulio.

A pochi giorni dalla celebrazione del 25 aprile, intendiamo riconoscere alla vicenda dolorosa di Patrik Zaki un valore universale di testimonianza a difesa dei diritti fondamentali per i quali in Italia e in Europa si è tanto lottato. Ci auguriamo che il governo possa dare seguito all’impegno relativo al conferimento della cittadinanza italiana a Patrick oltre a mettere in campo tutte le iniziative possibili per giungere ad una pronta liberazione.” 

Ha dichiarato il sindaco, Carlo Salvemini.

Non sono solo pensierini

“I bulli sono vigliacchi anche perché ci vuole molto più coraggio per formare rapporti con gli altri invece di usare la violenza o la prepotenza.”

Francesco Lorenzo Monti, classe V B

Nell’ora che doveva essere dedicata all’educazione civica, la supplente ha fatto leggere ai ragazzi della classe V B della scuola Carducci, un testo sul bullismo. Titolo inequivocabile: Mai più bulli! Compito assegnato, da fare in classe: sintetizzare il contenuto, evidenziando le frasi più significative.

Francesco Lorenzo ci ha messo impegno, ma ha consegnato più velocemente del solito.

Ogni tanto alle prese con qualche comportamento poco rispettoso di alcuni compagni da fronteggiare, ha sentito vicino l’argomento della lezione. Integrato nel gruppetto degli amici, ma preso in giro per la sua statura non da gigante, anche da chi, in realtà è di poco più alto, ma decisamente più arrogante, ha riportato, senza pensarci troppo, la sua prospettiva.  

La maestra gli ha detto che non ha svolto quanto richiesto.

Si è arrabbiato, perché per una volta aveva sentita necessaria la lettura e soprattutto la rielaborazione personale.

“Uffa, zia, avevo scritto proprio quello che pensavo, invece mi sa che ho sbagliato!”

Ho letto le poche righe, ma piene. Le trovo una risposta significativa, diretta e non retorica, di quanto accade, purtroppo senza la presenza di chi possa raccontarlo e troppo spesso ascoltarlo, a molti ragazzini, nei corridoi, nei giardini e negli schermi, da parte di loro coetanei.

Riporto il breve componimento di Francesco Lorenzo: non ha sbagliato a scrivere quello che pensa, anzi ha fatto un ottimo compito.

Una piccola, densa e sincera traccia.

“I bulli sono per la maggior parte delle volte ragazzi vigliacchi e, infatti se la prendono con ragazzi timidi o con difficoltà.

Non sono mai soli e hanno sempre bisogno di complici.

I bulli sono vigliacchi anche perché ci vuole molto più coraggio per formare rapporti con gli altri invece di usare la violenza o la prepotenza. “

Panchine resistenti

“Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. 

Antonio Gramsci

Le parole servono per comprendersi gli uni con gli altri: il dialogo rende comunità. Alcune compongono frasi, lasciate come eredità di un passato recente da non dimenticare. Ribadiscono uno sprone per un futuro in perenne costruzione. Antonio Gramsci ha scolpito nella coscienza del popolo italiano la sua storia, instillando nelle vene il sangue della libertà e dell’impegno.  

La sua lotta per renderci cittadini prosegue nella volontà di non rassegnarsi alle ingiustizie, sentendole profondamente condivise. E’ un monito oltre il senso di una giornata come il 25 aprile che pure non si dovrà mai smettere di ricordare nella sua essenza alle generazioni presenti e future.

Vergare su una panchina una delle sue esortazioni più vive e necessarie, renderla chiara anche a chi non può leggerla, attraverso l’iscrizione in braille, crea percorsi di identità nel territorio.

A Reggio Calabria ieri hanno inaugurato questa traccia di memoria proprio davanti alla panchina rossa simbolo di un’altra battaglia culturale che è urgente combattere insieme, sulla quale parla Asimov :“La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci.” Tali sono stati coloro che nella notte hanno provato ad imbrattare le parole di Gramsci. La loro ignoranza vigliacca non merita la visibilità che volevano ottenere.

La panchina è già stata ripulita, splende la frase che nessuna vernice può coprire. Nella città dello stretto da ieri altre due tracce la proteggeranno, condividendo la preziosa missione della memoria: sono due grandi murales dedicati ai reggini della Resistenza, i partigiani Malerba e Teresa Gullace.

Non si deve mai sottovalutare l’attacco vile di chi ha paura delle parole della storia, ma pronti, rispondere, vivendone appieno il senso: “Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. 

Mani nella terra

“Spero un giorno si celebreranno anche i Custodi della terra. Spero un giorno le mani dei contadini diventino patrimonio immateriali dell’Umanità.”

Giuseppe Savino

Ieri si celebrava la giornata mondiale della Terra. Mediaticamente si sono susseguiti appelli sulle condizioni precarie nelle quali versa il nostro pianeta e richiami a dare, ognuno, il proprio contributo per tutelarlo. Tra retorica, scienza e impegno reale, mi hanno colpito le parole sincere di chi tra le zolle, seguendo i ritmi, spesso impazziti, dei fenomeni stagionali, vive 365 giorni l’anno: i contadini. Sembrano quasi versi quelli che Giuseppe Savino dedica a suo padre Antonio, indipendentemente dalle occasioni mondiali o internazionali, anche ieri era sul suo trattore a curare gli amati campi nella provincia di Foggia. Tonino, come lo conoscono tutti lo fa dal 1982 quando, nel cuore del Tavoliere delle Puglie. ha dato vita all’Azienda Agricola Savino. Dapprima coltivava campi a barbabietola da zucchero, poi si sono specializzati nella coltivazione del pomodoro da industria, grano e orzo. Negli anni 90 l’azienda si è trasferita nelle campagne di Foggia dove oggi ha un’estensione di circa 21 ettari: sono aumentati i prodotti in un territorio pianeggiante, dal clima mite e dalla buona presenza di acqua. Insieme ad Antonio a condurla ci sono i suoi due figli: Giuseppe che si occupa della parte commerciale e del marketing e Michele, dottore agronomo che si dedica alla parte agronomica e allo sviluppo. Come si legge nel loro profilo ed è importante venga ribadito: si avvalgono di mano d’opera qualificata con regolare contratto di assunzione e investono in energie rinnovabili con un impianto fotovoltaico di 25 kw per soddisfare il loro fabbisogno energetico. I prodotti principali dell’azienda sono l’uva (Trebbiano e Montepulciano), il pomodoro, l’olio di oliva, ma hanno deciso di coltivare un campo sperimentale di Paulownia ( pianta maestosa, rinomata per il legname di estrema leggerezza che si ricava dal suo fusto) e da settembre cresceranno anche i melograni. La Cascina lavora per esportare i prodotti dal cuore della Puglia alle varie parti del mondo, per far viaggiare una tradizione che si innova e rinnova, di padre in figlio, senza dimenticare da dove tutto parta: l’amore per la Terra. Le parole di Giuseppe per suo padre Tonino, sono una traccia, un solco, profumato di albe e tramonti su un campo fertile.

“Lui è nostro papà. Si chiama Antonio. Non ditegli che questa è la giornata mondiale della Terra, perché lui non dedica solo una giornata alla Terra, ma ci ha dedicato una vita intera. Ho visto la sua zappa accarezzare le piante, le sue mani accompagnare un seme nel terreno come si accompagna una sposa all’altare, ho visto le sue lacrime irrigare sogni infranti e il suo sorriso illuminare distese senza confini. Ad un contadino non puoi togliere l’aria della terra perché gli toglieresti l’ossigeno della vita. Vuoi far ammalare un agricoltore? Toglili la terra!”

“Oggi celebriamo la Terra, spero un giorno si celebreranno anche i Custodi della terra, spero un giorno le mani dei contadini diventino patrimonio immateriali dell’Umanità. Si dice che i contadini sono ignoranti perché si cercano le loro lauree appese su un qualche muro, invece la laurea di un contadino la trovi stringendo le loro mani. Fatevi mostrare le mani, sono come il tronco di un albero secolare, li sopra ci sono impressi insegnamenti che neanche la Treccani può contenere.”

“Un contadino è colui che ha fatto della propria esperienza, sapienza. Sbaglia e sa attendere, perché una volta che ha sbagliato occorre attendere un anno per poter riprovare. Tempi agricoli, mi piace chiamarli. Spero quel giorno arrivi presto, ci stiamo impegnando ogni giorno insieme alle tante persone che ci sostengono, affinché questo avvenga. Oggi celebriamo la Terra con gioia, domani spero si celebrino i Contadini con riconoscenza per aver amato per primi la terra e per averla resa feconda.”

La violenza urla

Il video di un padre che urla, si dimena scomposto per difendere un figlio che è accusato di aver commesso l’odioso crimine di stupro è violento. Sono immagini che urtano la sensibilità e andrebbero quasi censurate, se non fosse che vederle, sentirle, restituisce quella che è ancora, purtroppo, una convinzione diffusa ad ogni livello culturale e sociale: la donna se la va sempre a cercare.

Quatto ragazzi che saltellano in mutande con il pisello di fuori si possono al massimo reputare coglioni, mentre la ragazza che partecipa, più o meno consapevole, all’euforia collettiva, non solo è meritoria di epiteti che ledono la sua dignità complessiva, ma è anche una vigliacca, bugiarda, al punto di arrivare a nascondersi dietro accuse infamanti, non si sa per quali benefici.

“Arrestate me – grida con tempi teatrali perfetti, il difensore mediatico degli allegri satiri danzanti – mio figlio è innocente!”. In un perverso gioco di sapienti intrecci comunicativi vuole smuovere la compassione dei genitori: l’ego di “innocenti” madri e silenziosi padri che hanno visto infangare l’onore dei propri rampolli per quella che rimane una bravata.

La giovane fanciulla, sola con quattro ragazzi perché così aveva voluto, consapevole del rischio che finisse coinvolta in un’orgia, è andata a fare surf il giorno dopo, “evidente fosse serena e consenziente”. La tesi di colui che, si ignora con quale ruolo giudiziario irrompa in quello che sarà un processo vero, è lapalissiana per chiunque non abbia mai vissuto un trauma così forte da lacerare ogni percezione naturale.

Il corifeo aizza le folle, occupando ogni anfiteatro visibile per un minuto e 39 nel quale si perde, sarà un lapsus, solo quando deve pronunciare la parola “consensualità” che assomiglia nell’eloquio ad una bofonchiante “conseguenzialità”. Non ci sono dubbi: se si decide di andare in una villa con quattro coglioni, la conseguenza è che berrai fino a perdere i sensi, come minimo sarai afferrata per i capelli e ti presterai ai giochi che il gruppo deciderà per te.

Violenza, ignoranza, incitazione, rischio, paura. Rimangono sensazioni nette e stridenti in chi non ha subito ciò che è toccato in sorte alla ragazza stuprata e ai suoi genitori, ma ha un figlio maschio ed una figlia femmina. Sento urlare, sì, la responsabilità di ribadire ancora una volta, senza la possibilità di platee infinite che: No, no, no e ancora no! Se un’amica o una semplice conoscente decide di venire a bere e a divertirsi con te, non significa in automatico che puoi approfittare di lei. Se lo fai, non sei un coglione, sei uno stupratore, commetti un reato per cui è giusto che ne paghi le conseguenze. E ancora: no, no, e no, se sei allegra e vuoi passare una serata con un ragazzo che hai appena conosciuto, non devi aspettarti che sia naturale ti prenda per i capelli e ti violenti. Soprattutto non è colpa tua, ma sei vittima ed è sacrosanto che denunci, con i tempi che servono per elaborare la paura e la delusione.

Finite le riprese della sciagurata performance, si ha la sensazione che il protagonista, asciugata la saliva eccessiva prodotta, si beva un bicchiere d’acqua e chieda, a chi lo ha immortalato nel suo ennesimo show di pessimo gusto, se sia andato bene, per poi tornare a riprendere le sue normali attività.

A noi donne resta invece la rabbia, la stessa che provano anche tanti uomini non coglioni, non criminali, non stupratori, perché toccherà continuare a dire a sé stesse, a figlie, amiche e sorelle: “state attente a chi incontrate, perché ad ogni livello sociale e culturale, se non rimarrete sempre vigili, diverrete doppiamente colpevoli, difficilmente vittime, e ancora più difficilmente libere.”

La Responsabilità

Il vento della finestra, aperta ieri da una donna disperata, avrei voluto frenarlo con il mio corpo trasparente e con parole fortemente invisibili. Continuo a sentirlo su di me, pesante come la responsabilità di aver scelto questo mestiere per raccontare non per sintetizzare, per conoscere senza limitarmi a rapida comprensione, senza mai ambire alla verità unica che non esiste e non serve, ma lasciando spazio al rispetto delle interpretazioni, senza mai delegare a quello per le persone.

E’ impossibile descrivere cosa si provi nell’istante in cui si decide di lanciarsi nel vuoto. Le parole della retorica dell’estrema disperazione si fermano prive di significato sull’ultimo sguardo. Bisognerebbe adoperarsi in ogni modo per trovare verbi, vocaboli, gesti concreti che possano riaccenderlo, proprio al limite del salto. Invece ieri, una donna, quasi mia coetanea, seria e appassionata professionista, riconosciuta e apprezzata rappresentante dello Stato, madre di una bambina piccola, ha trovato solo proposizioni, ricostruzioni, modi di dire, risultato di un utilizzo superficiale e dissennato della professione del giornalista a spingerla giù, azzerando la luce di ogni sua possibile espressione.

L’ordine a cui si iscrive chi svolge il mestiere del cronista, obbliga a fare dei corsi di deontologia. Ore nelle quali si può decidere di pensare ad altro, di leggere un libro, approfittare per chiudere un lavoro, oppure distrattamente ascoltare le regole minime che indicherebbero, nel rispetto della libertà di espressione, come tutelare i soggetti coinvolti nelle vicende giudiziarie, soprattutto coloro per i quali è ancora massima la presunzione di innocenza.

Nome, cognome, foto, dettagli famigliari, stralci precisi delle accuse, presunte ipotesi a sostegno, fino alla drammatizzazione degli ultimi minuti del pomeriggio di colei che rimane una dirigente stimata e preparata, hanno riempito le pagine dei principali quotidiani, basandosi su quanto fatto trapelare da un giornale minore: scarse vendite in edicola, ma altisonante nome etico.

E’ l’aberrante cultura del like, per cui si sceglie di svolgere test del DNA in diretta televisiva e si lotta per riportarne per primi gli esiti online. La formazione dell’hastag: anni a capire come comporre un’inchiesta e raccogliere le testimonianze, bruciati nei minuti preziosi dedicati all’apprendimento del trend che possa far scattare l’algoritmo perfetto. Pecca di snobismo, perisce nell’invidia o semplicemente viene catalogato come obsoleto, chi ancora aspetta prima di dare la notizia e si ferma quando sente che è troppo presto per chiedere al diretto interessato.

Due anni fa, una brava giornalista che consideravo anche un’amica per averla sostenuta nel suo percorso di crescita professionale, mi lanciò la peggiore delle accuse: mi diede dello sciacallo. Motivo: avevo chiesto l’amicizia su Facebook ad una ragazza che aveva perso da poco il padre e lo salutava, prendendosi l’impegno a ricordarlo piantando una foresta di alberi. Mi sembrava un’idea meravigliosa di cui avrei voluto scrivere, sicuramente non a ridosso di un evento così traumatico, ma seguendola nel tempo per capirne l’evoluzione. Supponendo, non so su quali basi, che mi sarei lanciata alla ricerca di particolari pruriginosi per raccogliere i likes della compassione, la giovane collega mi scaricò addosso parole pesanti che non ho potuto sostenere. Tentai di ricordarle il mio modo personale, infatti parco di consensi mediatici, di raccontare anche vicende legate agli addii e alla memoria, ma poi preferii bloccarla, ferita per questo giudizio più che da una critica distruttiva su un mio scritto.

Sarò una romantica idealista, ma ho avuto maestri speciali che mi hanno mostrato, lacerando la propria anima senza pretendere di ottenere scoop o ascolti da prima serata, come possa essere fondamentale il nostro lavoro, scevro da strategie commiserevoli, per aiutare i protagonisti stessi a ricostruire la propria storia, esponendo necessarie denunce o lasciandone memoria.

Ho letto faldoni di sentenze, perdendomi nella polvere magica degli archivi; ho guardato negli occhi madri e figli di persone citate negli stessi documenti; captato i respiri telefonici di attori di vicende magari considerate minori, ma non per questo non meritevoli di attenzione: mai ho provato la voglia di andare oltre, più il pudore di rimanere indietro.

Il vento della finestra, aperta ieri da una donna disperata, avrei voluto frenarlo con il mio corpo trasparente e con parole fortemente invisibili. Continuo a sentirlo su di me, pesante come la responsabilità di aver scelto questo mestiere per raccontare non per sintetizzare, per conoscere senza limitarmi a rapida comprensione, senza mai ambire alla verità unica che non esiste e non serve, ma lasciando spazio al rispetto delle interpretazioni, senza mai delegare a quello per le persone.

Mi auguro di leggere, con eguale enfasi e spazio, articoli che riportino nome, cognome, ruolo senza altri dettagli, la notizia della guarigione di una persona stimata e del percorso che così potrà affrontare, con il giusto sostegno di parole e sentimenti, per vedere nuovamente riconosciuta la giustizia dei suoi anni di lavoro e di passione.  

Cartoline dall’anima

“Frammenti di vita, lontani anni luce dalle giornate deputate a festa, dal clamore dei giorni degli esami, dei matrimoni, dei funerali. Quei piccoli momenti che sono il mosaico della persona che sei diventato.”

Una figurina ritrovata; la nota stonata libera in un coro; uno sguardo da far battere il cuore; il canestro del trionfo, realizzato contro ogni previsione; gli auguri sinceri e leggeri degli amici: tracce di memoria scorrono come scatti nitidi dal passato. Li fa scivolare, la penna di Lamberto Bettini, consulente per l’editoria scolastica, scrittore pesarese in attesa di pubblicare il suo primo romanzo. Sono un dono che regala lui, nel giorno del suo compleanno, a chi legge, per ricordare quanto siano rapidi, ma continui e resistenti gli attimi di felicità da condividere. (In copertina le opere di Wallas.)

“Hai otto anni. Sei al campetto del prete, dove trascorri tutti i pomeriggi giocando a pallone. E’ ora di tornare a casa, indossi il giubbotto, con la mano destra apri la cerniera della tasca e ti accorgi che non c’è più il tuo mazzo delle figurine Panini dei calciatori. Le doppie e quelle buone, da appiccicare sull’album, che avevi scambiato qualche ora prima. Provi qualcosa allo stomaco che più avanti negli anni chiamerai disperazione. Qualcuno di cui ti fidi dice che a rubartele è stato un ragazzo più grande, un tipo che nessuno può vedere, una sorta di bullo del quartiere. Oggi non ne ricordi il nome, ma riconosceresti il suo volto. Devi essere proprio fuori di te, così timido come tutti dicono tu sia, visto che il pomeriggio successivo vai deciso verso quel ragazzo, a cui non hai mai rivolto la parola, per dirgli senza tanti preamboli: “so che hai preso tu le mie figurine”. Lui a dire il vero non ti degna più di tanto, farfuglia qualcosa che assomiglia ad un “non ne so niente”, tornando agli affari suoi prima che tu possa aggiungere altro. Hai ancora adesso, lì con te, la rabbia per quelle figurine, mai più trovate, e l’orgoglio dello sguardo tenuto alto.”

“Hai nove anni. Sei sul palcoscenico di un teatro della tua città insieme ai tuoi compagni di scuola. Fra poco si aprirà il sipario e, anche se ancora non la vedi, sai già l’effetto che ti farà la platea gremita da genitori, nonni e autorità. Dovrete cantare i brani natalizi che avete provato per mesi. L’insegnante è riuscita nell’intento che ritenevi improbabile di farvi diventare un coro. Vi dà l’ultimo consiglio, quello definitivo, che la consegnerà alla tua memoria :“Bambini, mi raccomando, chi sa di essere stonato muova solo le labbra, senza cantare. Tutti gli altri si facciano sentire”. Questa frase è l’unica cosa che ricordi veramente di quel giorno. Ti ha lasciato il rimpianto, ancora vivo, di non aver stonato a squarciagola.”

“Hai undici anni. Sei con il tuo migliore amico di fronte al portone della casa dove abita la bambina che ti piace da impazzire. Suoni il campanello senza sapere cosa dirai quando qualcuno ti aprirà la porta. E quando senti dei passi che si avvicinano e realizzi che potresti davvero trovarti di fronte quegli occhi azzurri e quei capelli lunghissimi e biondi, capisci che non ce la puoi fare: tu ed il tuo amico ve la date a gambe. Ancora oggi senti l’eco dei tuoi passi in fuga. E il batticuore.”

“Hai ventitré anni. Stai giocando una partita di pallacanestro nell’ultimo dei campionati. Un derby contro i fanesi, chi è di Pesaro sa cosa significa. Stai giocando male, fino ad ora hai segnato solo quattro punti, non che abitualmente tu ne faccia tanti di più. Siete solo in cinque: non ti possono sostituire. Sotto di un punto, manca una manciata di secondi alla sirena. La stellina della squadra decide che la vuole risolvere lui: cerca il canestro con un tiro da fuori che si rivela una mattonata. Tu, districandoti fra una selva di braccia protese, riesci ad afferrare il rimbalzo o semplicemente la palla ti cade in mano. Fatto sta che non hai tempo di pensare, ma solo di tirare. Peccato che un energumeno ti stampi una stoppata di quelle destinate a restare immortalate nei poster, ma, in un qualche modo che non ti sei mai saputo spiegare, la palla ti ritorna in mano: a questo punto non ti resta che lanciarla verso il canestro senza il minimo controllo stilistico.”

“La sfera danza sul cerchio di ferro per un bel po’, tipo film americano, poi gli Dei del basket decidono di sorriderti e tu esulti con le braccia al cielo attraversato da urla di rabbia e di gioia e dall’ immediata consapevolezza che avrai per sempre in tasca un jolly da giocarti al bar nelle storie sui fanesi. Tutti avevano un qualcuno a vedere la partita. Per te è lì Stefano, compagno di studi e di pallacanestro. La mattina seguente, in camera sua, mentre ripassate statistica, ti dirà, ridendo che sei diventato il suo eroe. Qualche anno dopo sua madre ti chiamerà per fare ordine nella sua stanza: non avresti voluto farlo mai, ti farà dono del suo pallone da basket. Per anni lo conserverai come una reliquia. Poi sarà la palla con cui tuo figlio comincerà a palleggiare.”

“Hai cinquantacinque anni. Li compi oggi e vuoi brindare con i tuoi amici, soprattutto con quei cinque o sei che sono arrivati a leggere fin qua. Vuoi raccontare alcune cartoline dell’anima. Frammenti di vita, lontani anni luce dalle giornate deputate a festa, dal clamore dei giorni degli esami, dei matrimoni, dei funerali. Quei piccoli momenti che sono il mosaico della persona che sei diventato. E tu che non ci pensavi, perché con tutto te stesso eri impegnato a viverli.”

Fondamentali maestre

“Ieri mattina, nella nostra cassetta della posta verde, quella che abbiamo in aula per raccogliere stati d’animo, pensieri e bisogni, ho trovato un biglietto: Maestra, grazie infinite. Ho capito che io non sono inutile. Grazie.”

Enrica Ena

Come stanno i bambini? Cosa pensano? In questo lungo periodo complesso, capita di guardare i loro occhi sopra la mascherina e chiederselo. C’è chi, però, fa la differenza, aiutandoli a formulare la risposta, senza infingimenti, e, soprattutto, prestando attenzione ad ogni dettaglio delle loro parole. Enrica Ena, insegnante nella scuola primaria dell’Istituto Comprensivo Pietro Allori di Iglesias, dimostra ogni giorno, nelle aule in cui incontra i suoi piccoli allievi, all’aperto dove li coinvolge in numerose iniziative ed anche attraverso uno schermo, con la sua forma di DAD speciale, di interpretare un ruolo fondamentale: l’intermediaria dei sentimenti. Questa mattina ha scritto un post, mi ha confessato di aver pensato molto prima di condividerlo, che è una traccia toccante del suo lavoro, dell’amore che ci riversa, necessaria a spingere chi legge a non dare mai per scontata la richiesta di aiuto, palese o sottintesa, espressa dalle donne e dagli uomini di domani. La ringrazio per quanto fa e per avermi consentito di pubblicare il suo racconto.

“Qualche giorno fa, una delle mie bambine, chiamandomi al suo banco, mi ha chiesto se poteva parlarmi un attimo. Io ho pensato a una richiesta comune, perciò mi sono semplicemente avvicinata.

-“ Sai maestra, io mi sento inutile.

” Ho abbandonato ogni cosa e ogni altro pensiero e mi sono messa accanto.

Cosa vuol dire, amore, in che senso ti senti inutile?

Proprio come un oggetto che c’è, ma non serve a nessuno. A volte mi metto anche in un angolo dove mi sento più tranquilla.

Amore – le ho detto io – ma tu non sei affatto inutile, perché ti senti così?

Perché molte volte non capisco le cose, faccio molta fatica.

Ma questo non significa essere inutili. Ognuno ha i suoi tempi e noi tutti non abbiamo fretta e siamo qui per aiutarvi.

Non devi mai sentirti inutile. Pensa che io non riesco a immaginare questa classe senza di te. Senza la bellezza che ogni giorno porti con la tua gentilezza verso tutti, senza quello che tutti noi impariamo da te. A me non interessa se non sai fare tutto subito. Io voglio solo cercare sempre la strada per aiutarti.

E le ho raccontato le tante cose che porta tra noi.

Le sono scese lacrime silenziose.

Le ho detto che ogni regola ha le sue eccezioni, perciò anche se non si potrebbe: l’ho abbracciata stretta.

Lei si è ammorbidita, mi ha detto che questa cosa l’ha rivelata anche ai suoi genitori, che pure loro sono rimasti molto sorpresi.

Visto come mi sono sentita io, da maestra, posso solo immaginare che cosa abbiano provato loro.

Le ho detto di non pensarlo mai, ma che ha fatto bene a dirmi come si sente perché è importante per me sapere che cosa prova e che cosa pensa.”

“È tornata a sedersi. Io sono rimasta lì a pensare a quanto sia difficile, anche quando pensiamo di fare tutto il possibile, capire davvero come possa sentirsi un bambino.

Dopo un po’ si è avvicinata e mi ha detto:

Sono più tranquilla, maestra. Non lo dirò più di sentirmi inutile.

E io le ho risposto:

Non preoccuparti di averlo detto, hai fatto bene. Ciò che desidero è che tu non lo possa pensare mai più. Perché tu sei molto preziosa e come ti senti conta più di ogni cosa.

“Si è messa al lavoro – stiamo affrontando le divisioni in colonna – e le sono stata molto vicina per guidarla con gli strumenti che so esserle d’aiuto.

Mi sono interrogata molto, e lo sto facendo ancora adesso. Se si sente così una bambina amata da tutti noi, in una classe in cui al primo posto abbiamo messo la costruzione di un clima sereno, la cura e l’aiuto dell’altro. Dove non sono mai esistiti voti né giudizi, dove la competizione è tenuta fuori, cosa accade in altri scenari?”

“La verità è che non possiamo mai sapere che cosa senta davvero ognuno. Mi è stato consegnato un pensiero con una franchezza disarmante, come mai mi era capitato. Ma questo chissà quanto è dentro tanti dei nostri bambini, nonostante noi. Perché loro conoscono bene le loro difficoltà, senza bisogno che nessuno gliele mostri di continuo e si confrontano oltre ogni nostro confronto.

Che male!”

Una voce colorata per vedere L’Aquila

“Dicono che le cose brutte accadono a chi è in grado di sopportarle.”

6 aprile 2009 – 6 aprile 2021. Sono passati 12 anni dalla notte nella quale gran parte dell’Italia si svegliò di soprassalto, scossa dal terremoto. Per molti l’incubo continuò e non è ancora finito. A L’Aquila morirono 309 persone. Tanti erano giovani, studenti, colpiti mentre coltivavano, fiduciosi, il proprio futuro. Tra loro c’era anche Eleonora Calesini, estratta dalle macerie della casa che condivideva con tre amiche studentesse, 40 ore dopo le 3.32, in cui tutto crollò. Da allora non ha potuto e voluto dimenticare, non solo il dolore per Enza che non ce l’ha fatta, ma i colori, le sensazioni, le emozioni che quella città così accogliente, cinta da vette innevate, le aveva donato.

Nel 2019, a dieci anni dall’evento, l’ha raccontata in un libro Il Movimento dei sogni, scritto insieme a Debora Grassi, illustrato da Caterina Germani, per la Fandango Editore. In questo 2021 di silenzi ancora più forti e grigi più intensi, le immagini dalla carta si animano in un video. Eleonora, Elly, videomaker di Mondaino, ne ha curato il montaggio, Debora, scrittrice riminese, ha dato la voce alle parole scelte. L’idea è venuta a Caterina: ha disegnato L’Aquila che si addormenta serena, si sveglia ferita e si proietta in un futuro di nuova bellezza, sempre cinta dalle sue cime innevate.

Le frasi sono delicate, ma colpiscono come pugni improvvisi, accompagnate dai tratti leggeri e inesorabili che rendono questo minuto e 46 secondi, un omaggio alla memoria collettiva toccante e indimenticabile.

Spiega Eleonora:

“L’idea del video è nata per ricordare una data che non potremo dimenticare. Caterina, amica e illustratrice del libro ha proposto l’idea dei disegni e insieme abbiamo deciso di creare un video sulla voce dei protagonisti del libro che abbiamo scritto.

Non voleva essere un video personale, non solo sulla mia storia, ma doveva rappresentare la storia di tutti. Abbiamo scelto delle frasi che potessero racchiudere la vita e i sentimenti di tutte le persone che hanno vissuto questa esperienza.

 Per questo abbiamo deciso di ritrarre l’Aquila. Abbiamo dato voce e immagini alla città.”

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