Il vento della finestra, aperta ieri da una donna disperata, avrei voluto frenarlo con il mio corpo trasparente e con parole fortemente invisibili. Continuo a sentirlo su di me, pesante come la responsabilità di aver scelto questo mestiere per raccontare non per sintetizzare, per conoscere senza limitarmi a rapida comprensione, senza mai ambire alla verità unica che non esiste e non serve, ma lasciando spazio al rispetto delle interpretazioni, senza mai delegare a quello per le persone.
E’ impossibile descrivere cosa si provi nell’istante in cui si decide di lanciarsi nel vuoto. Le parole della retorica dell’estrema disperazione si fermano prive di significato sull’ultimo sguardo. Bisognerebbe adoperarsi in ogni modo per trovare verbi, vocaboli, gesti concreti che possano riaccenderlo, proprio al limite del salto. Invece ieri, una donna, quasi mia coetanea, seria e appassionata professionista, riconosciuta e apprezzata rappresentante dello Stato, madre di una bambina piccola, ha trovato solo proposizioni, ricostruzioni, modi di dire, risultato di un utilizzo superficiale e dissennato della professione del giornalista a spingerla giù, azzerando la luce di ogni sua possibile espressione.
L’ordine a cui si iscrive chi svolge il mestiere del cronista, obbliga a fare dei corsi di deontologia. Ore nelle quali si può decidere di pensare ad altro, di leggere un libro, approfittare per chiudere un lavoro, oppure distrattamente ascoltare le regole minime che indicherebbero, nel rispetto della libertà di espressione, come tutelare i soggetti coinvolti nelle vicende giudiziarie, soprattutto coloro per i quali è ancora massima la presunzione di innocenza.
Nome, cognome, foto, dettagli famigliari, stralci precisi delle accuse, presunte ipotesi a sostegno, fino alla drammatizzazione degli ultimi minuti del pomeriggio di colei che rimane una dirigente stimata e preparata, hanno riempito le pagine dei principali quotidiani, basandosi su quanto fatto trapelare da un giornale minore: scarse vendite in edicola, ma altisonante nome etico.
E’ l’aberrante cultura del like, per cui si sceglie di svolgere test del DNA in diretta televisiva e si lotta per riportarne per primi gli esiti online. La formazione dell’hastag: anni a capire come comporre un’inchiesta e raccogliere le testimonianze, bruciati nei minuti preziosi dedicati all’apprendimento del trend che possa far scattare l’algoritmo perfetto. Pecca di snobismo, perisce nell’invidia o semplicemente viene catalogato come obsoleto, chi ancora aspetta prima di dare la notizia e si ferma quando sente che è troppo presto per chiedere al diretto interessato.
Due anni fa, una brava giornalista che consideravo anche un’amica per averla sostenuta nel suo percorso di crescita professionale, mi lanciò la peggiore delle accuse: mi diede dello sciacallo. Motivo: avevo chiesto l’amicizia su Facebook ad una ragazza che aveva perso da poco il padre e lo salutava, prendendosi l’impegno a ricordarlo piantando una foresta di alberi. Mi sembrava un’idea meravigliosa di cui avrei voluto scrivere, sicuramente non a ridosso di un evento così traumatico, ma seguendola nel tempo per capirne l’evoluzione. Supponendo, non so su quali basi, che mi sarei lanciata alla ricerca di particolari pruriginosi per raccogliere i likes della compassione, la giovane collega mi scaricò addosso parole pesanti che non ho potuto sostenere. Tentai di ricordarle il mio modo personale, infatti parco di consensi mediatici, di raccontare anche vicende legate agli addii e alla memoria, ma poi preferii bloccarla, ferita per questo giudizio più che da una critica distruttiva su un mio scritto.

Sarò una romantica idealista, ma ho avuto maestri speciali che mi hanno mostrato, lacerando la propria anima senza pretendere di ottenere scoop o ascolti da prima serata, come possa essere fondamentale il nostro lavoro, scevro da strategie commiserevoli, per aiutare i protagonisti stessi a ricostruire la propria storia, esponendo necessarie denunce o lasciandone memoria.
Ho letto faldoni di sentenze, perdendomi nella polvere magica degli archivi; ho guardato negli occhi madri e figli di persone citate negli stessi documenti; captato i respiri telefonici di attori di vicende magari considerate minori, ma non per questo non meritevoli di attenzione: mai ho provato la voglia di andare oltre, più il pudore di rimanere indietro.
Il vento della finestra, aperta ieri da una donna disperata, avrei voluto frenarlo con il mio corpo trasparente e con parole fortemente invisibili. Continuo a sentirlo su di me, pesante come la responsabilità di aver scelto questo mestiere per raccontare non per sintetizzare, per conoscere senza limitarmi a rapida comprensione, senza mai ambire alla verità unica che non esiste e non serve, ma lasciando spazio al rispetto delle interpretazioni, senza mai delegare a quello per le persone.
Mi auguro di leggere, con eguale enfasi e spazio, articoli che riportino nome, cognome, ruolo senza altri dettagli, la notizia della guarigione di una persona stimata e del percorso che così potrà affrontare, con il giusto sostegno di parole e sentimenti, per vedere nuovamente riconosciuta la giustizia dei suoi anni di lavoro e di passione.
Rispondi