“Non sono più, solo, la mamma di Lorenzo: sono Debora, una Operatrice socio sanitaria che ha una famiglia, lavora e riesce a staccare, da un ambito all’altro, per rientrarci con il sorriso.”
“Hai i figli piccoli, puoi stare a casa ad occuparti serenamente di loro!” Quante volte le donne si sono viste rispondere in questo modo: in periodi di crisi nel proprio ambiente di lavoro, nei quali si chiede di fare passi indietro per il bene collettivo; o mentre sono alle prese con la ricerca di una professione che possa, semplicemente, conciliare le esigenze di cura e di realizzazione personale. E’ la conclusione inevitabile ancora di più per coloro che si trovano ad avere un terzo ruolo: caregiver di un figlio, una figlia o un genitore. Lavorare con un disabile in famiglia sembra quasi un ossimoro, peccato lo diventi, realmente, qualsiasi avverbio o aggettivo che indichi una serenità possibile quando viene negato. Debora Coradazzi ha deciso di provare a mostrare come possa essere naturale e necessario rompere lo stereotipo per la madre di un ragazzo autistico. E’ stata spesso protagonista delle tracce: per come ha gestito la disabilità di suo figlio, inventandosi con il marito Luigi, la pratica terapeutica dei viaggi in camper; per la creatività messa al servizio anche degli altri con la predisposizione dei materiali didattici adatti a chi ha difficoltà simili a quelle di Lorenzo; per essere riuscita a far diventare il suo condominio una comunità solidale. Oggi lo è come OSS, operatrice socio sanitaria di una struttura di riabilitazione, fiera di aver cominciato ad esercitare nel periodo mondialmente più complesso, ma felice di dimostrare che si può fare: si può essere la mamma di Lorenzo e una professionista, assicurando competenze professionali specifiche e un benessere nuovo a tutta la famiglia.
“Ho preso il diploma come OSS nel 2010, ma avevo Lorenzo piccolo, Luigi che lavorava in ufficio: non riuscivo ad organizzarmi. Lo scorso anno, proprio all’inizio della pandemia, a fine febbraio, sono stata assunta dalla struttura riabilitativa dove avevo svolto il tirocinio: avevo mandato il curriculum, quando avevo sentito fosse arrivato il momento per riprendere in mano l’altra parte della mia vita.
In tanti, costretti a casa per evitare i contagi e i rischi del virus, mentre io, finalmente, potevo uscire.
Contratto a tempo determinato, turni di 7 ore, niente notti, in servizio nel reparto di psichiatria.”
“Lorenzo ha 14 anni, ma frequenta la prima media. Da settembre la sua scuola non si è mai fermata, abbiamo avuto qualche piccolo problema solo con gli assistenti domiciliari, perché a volte sono dovuti rimanere in quarantena, ma tutto superabile. Luigi ha deciso di diventare libero professionista, gestendo gli orari degli appuntamenti e gli incontri con le aziende in modo che si incastrino con le mie disponibilità. Finora avevo fatto qualche servizio domiciliare, lavoricchiavo, non provavo quella sensazione difficile da spiegare, che si sprigiona nel momento in cui si pronuncia la frase: “esco, vado a lavorare.” Per molti è normale, per me non. Significa avere una cura diversa di sé, prepararsi ogni mattina o ogni pomeriggio; incontrare i propri colleghi; chiacchierare anche di stupidaggini; dedicarsi a ciò per cui si è studiato; tornare, stanchi, ma soddisfatti.”
“Non sono più, solo, la mamma di Lorenzo: sono Debora, una Operatrice socio sanitaria che ha una famiglia, lavora e riesce a staccare da un ambito all’altro per rientrarci con il sorriso. Credevo non fosse possibile lasciare mio figlio, sono stata sempre presente da quando è nato: parte stessa di ogni ambiente e di ogni momento, indissolubilmente legati. Invece, in maniera naturale, come sembrava esserlo stare in continuazione insieme, ho capito che potevo anche io lasciarlo, e lui avrebbe resistito, non ero indispensabile. Anzi, ora, credo che Lorenzo percepisca il mio ritorno e manifesti la sua gioia nel rivedermi. E’ giusto per entrambi iniziare a sperimentare il distacco: spero di trovare per lui un luogo dove trascorrere ore in autonomia, rispetto a noi, dove possano capirlo altri oltre a me che ne so intuire ogni impercettibile sfumatura dello sguardo e dargli la voce che non ha.”
“So di essere in una situazione che non è comune a tanti che vivono nella mia stessa condizione e non possono gestirla, come è normale sia, che con un compagno attento e con un sistema sociale che comprenda e funzioni. Per questo sento di condividere la mia esperienza per chi come me, ha paura: bisogna superarla per provare a non sentirsi viva solo per il proprio figlio, figlia o genitore, ma anche per sè stessa e per le proprie giuste aspirazioni.
Stare con le persone che assisto mi fa stare bene: non ho capacità diverse dai miei colleghi, dettate dalla mia esperienza personale a contatto con la disabilità mentale, posso però contare su un’empatia spontanea.”

“Domani farò il vaccino, spero che presto si capisca che oltre a medici, infermieri, insegnanti lo debbano fare anche gli educatori: in questo caso parlo nella mia doppia veste di madre e di operatrice socio sanitaria.”