“C’è necessità di risorse umane per affrontare al meglio terapie e cure. Non occorrono tanti macchinari, ma le persone che siano in grado di gestire la situazione in relazione tra di loro per incidere sui comportamenti. Prevenzione e sistema.”
425 milioni sono i malati di diabete nel mondo, nel 2030 si prevede che il numero salirà a 522 milioni, di questi, quasi quattro sono in Italia. Una cifra elevata per una patologia che si conosce e di cui si parla ancora troppo poco. E’ una malattia sistemica non solo perchè attacca diversi organi, ma anche perchè coinvolge in maniera costante la famiglia del malato e dovrebbe investire vari ambiti della società nella gestione quotidiana di cure e terapie. Ogni anno per aumentare la consapevolezza e sensibilizzare in tal senso, è stata istituita dall’International Diabetes Federation e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Giornata Mondiale del Diabete. Iniziative e campagne nel giorno che corrisponde alla data di nascita di Frederick Banting (il co-scopritore dell’insulina con Charles Best nel 1922) affinchè negli altri 364 possa maturare una conoscenza ed impedire di scoprire la malattia nel modo peggiore, attraverso la chetoacidosi. Si tratta di una grave complicanza del diabete di tipo 1, la forma autoimmune che nel nostro paese conta 25 mila casi di bambini fino a 18 anni. Ogni anno circa 200 bambini sono ricoverati con diagnosi di chetoacidosi grave che può avere conseguenze molto serie e invalidanti, tra cui danni neurologici permanenti fino alla morte. Se i sintomi di diabete vengono riconosciuti presto e la cura iniziata subito, non compare. Inoltre, la diagnosi tempestiva di diabete comporta ricoveri ospedalieri più brevi e, quindi, un notevole risparmio economico. Si stima che 20 miliardi siano i costi diretti e indiretti della malattia. I numeri sono tracce importanti per capire che potenzialmente potremmo essere coinvolti tutti, quindi sarebbe bene farsi trovare preparati. Se sistemico è l’aggettivo che connota la malattia deve esserlo anche l’approccio e la strategia di risposta. Ne è convinto il professor Valentino Cherubini, direttore della Diabetologia Pediatrica degli Ospedali Riuniti di Ancona,componente dell’ ISPAD (organizzazione internazionale che promuove la ricerca, l’educazione ed il sostegno dei bambini e adolescenti con diabete) e del progetto SWEET (una rete internazionale per Centri di Diabetologia Pediatrica). La sua è una traccia importante per iniziare un percorso e per dimostrare che i problemi non sono sempre e solo di chi li ha.
La traccia: ricerca per prevenzione e cura del diabete
“Dieci anni fa circa mi hanno chiesto un supporto medico legale i genitori di un bambino, che aveva riportato conseguenze permanenti gravi di tipo cognitivo, visivo e motorio, per il ritardo nella diagnosi del diabete di tipo 1. Era un caso archiviato, mi hanno chiesto di aiutarli per riaprirlo e vedere riconosciute le necessità di questo bimbo. Abbiamo avuto successo con la causa: è stata attribuita una responsabilità del sistema sanitario, anche se questo purtroppo non ha compensato i genitori delle difficoltà che dovrà affrontare nella vita il loro figlio. Il padre ha creato un movimento di opinione, “we love insulina”, per sensibilizzare opinione pubblica e gli operatori sanitari proprio su questa patologia e su tutto ciò che riguarda il diabete. Condivido in pieno il motto che è “mai più a nessuno””
“Da allora è cambiata anche un po’ la mia vita, dal punto di vista professionale e scientifico: ho dato la mia disponibilità ad occuparmi delle perizie di altri casi analoghi. Dedicandomi, oltre alla quotidiana cura e assistenza a pazienti malati di diabete e alle loro famiglie, a ricerche e progetti per sensibilizzare e far conoscere l’importanza della prevenzione e di una diagnosi precoce. Non è solo una questione di tipo medico scientifica, ma di civiltà che vede l’Italia arretrata rispetto ad altri paesi. Insieme a collaboratori di varie parti del mondo sto conducendo una ricerca condotta, su oltre 60 mila bambini malati di diabete: è emerso, come nel periodo che va dal 2006 al 2016, il 40% dei bambini italiani abbia manifestato un esordio di diabete con la chetoacidosi, il tasso più alto tra i paesi in cui vi è benessere sociale. In Svezia o in Danimarca la percentuale scende al 20% circa. E’ evidente che si tratti di un ritardo nella diagnosi. E’ curioso che questo si verifichi in un paese nel quale si può scegliere il libero pediatra, si forniscono cure in maniera gratuita e ci sono presidi sanitari distribuiti su tutto il territorio nazionale. Ho deciso quindi di affrontare la realtà, mettendo in pista un progetto nella Regione Marche che prevede anche disposizioni legislative regionali ad hoc.”
La strategia in 6 punti
“Sei sono i punti che lo caratterizzano. Il primo riguarda la sensibilizzazione della popolazione che deve essere capillare e costante. Pari a quella degli operatori sanitari, punto 2. Proprio per consentire a chi si occupa del primo soccorso di arrivare rapidamente ad una diagnosi, chiediamo al punto 3 che venga fornito uno stick glicemico nei triage del pronto soccorso: permetterebbe di ottenere un’informazione fondamentale insieme alle altre che si raccolgono all’ingresso del paziente. In questa direzione va anche la richiesta di una collaborazione da parte dei farmacisti: se il pediatra non ha il glucometro, si può indirizzare verso la più vicina farmacia a fare l’esame con lo stick. Nel caso di altre analisi prescritte per verificare il sospetto di una patologia diabetica, bisogna migliorare il collegamento con i laboratori che devono velocizzare la comunicazione dei risultati, punto 5. Al punto sei, concludiamo con la necessità che, una volta provata la diagnosi, si affidi la gestione del caso al sistema sanitario nazionale, con la presa in carico di un diabetologo senior che abbia una esperienza tale che consenta di ridurre eventuali rischi.”
“E’ un lavoro nel quale sto riversando molte energie oltre alle mie conoscenze trentennali, affiancate da quanto ho potuto osservare e provare in molti dei casi nei quali sto curando le perizie medico legali. L’obiettivo è ridurre il più possibile proprio le storie cliniche che arrivano a patologie gravi, provocate da una mancata diagnosi. Gran parte dei casi di chetoacidosi guariscono, in dieci anni ci sono stati 12 decessi, ma ci sono altre conseguenze che possono rimanere per sempre come la riduzione di capacità cognitiva, danni neurologici, una difficoltà maggiore nel controlli metabolico e costi più elevati.”
Un lavoro di squadra
“Credo sia nostra responsabilità primaria impegnarsi nella prevenzione della chetoacidosi diabetica.
Il nostro è un percorso che dobbiamo affrontare, sperando che aumenti l’attenzione sulla patologia di cui ci occupiamo. Di diabete se ne parla poco, forse perchè è una malattia che non si cura con tubi e farmaci che procurano effetti tossici evidenti. Se una persona perde la vista o va incontro ad una insufficienza renale è difficile pensare al diabete. Un bambino che soffre di diabete, grazie a terapie mirate e costanti, può giocare con gli altri senza che si notino differenze. Spesso per questo ci si fa carico del peso della malattia nella solitudine, c’è invece bisogno del massimo del sostegno possibile per affrontare la condizione. L’esempio più pratico riguarda l’inclusione dei bambini con diabeta a scuola. Con le raccomandazioni ministeriali Moratti – Storace, dal 2005 è consentita la somministrazione di insulina da parte del personale scolastico che deve anche provvedere al controllo della glicemia. E’ consentito, ma non obbligatorio. Le singole Regioni hanno emanato delle disposizioni più specifiche. Bisogna cercare di abbattere la paura degli insegnanti nella somministrazione, la responsabilità della dose rimane a carico dei genitori.”
“E’ la conferma della necessità di risorse umane per affrontare al meglio terapie e cure. Non occorrono tanti macchinari, ma le persone che siano in grado di gestire la situazione in relazione tra di loro per incidere sui comportamenti. Parlare di questo non è facile: i cambiamenti che possono portare a vantaggi economici e biologici per la società non si compiono con le super Tac,che pure rimangono macchine fondamentali. Per evitare la cecità o il trapianto di un rene, bisogna lavorare sulla prevenzione che è un lavoro di squadra. I risultati si possono ottenere con le azioni svolte in un centro diabetologico dove operi un team al completo. Questo significa che sono necessarie almeno 4 figure in numero adeguato: 1 pediatra e una infermiera ogni 100 bambini; 1 psicologo e 1 dietista ogni 2/300. Se non riusciamo a stare a questi numeri, la qualità dell’assistenza si riduce. Una visita nei nostri centri non dura 15 minuti, richiede ore e interventi da coordinare nel territorio. Ci devono essere centri di diabetologia in grado di fornire attività all’interno e collegati con l’esterno.”
“Lavoro in questo settore da oltre 30 anni, dal 1983. Sono figlio di un medico: mio padre mi ha trasmesso l’amore per il paziente, la cosiddetta parte educativa. Io ho scelto di intraprendere la strada della pediatria e dell’endocrinologia pediatrica per poi applicarla con i bambini che hanno il diabete. Sono stato all’estero: negli Stati Uniti, in Finlandia, Inghilterra e Germania sia per perfezionare i miei studi, sia per collaborare con organizzazioni internazionali. Ho 62 anni, sono primario da 10, la mia aspirazione ora è formare giovani che possano migliorare la qualità del sistema, per garantire il livello più alto di cura e assistenza possibile.”
La traccia volante: La parola d’ordine è Sistema. Lavorare insieme, in sinergia è la chiave per ottenere i risultati più vantaggiosi e duraturi anche nella cura di una patologia come il diabete.
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