“Ho fatto un discorso sentito sul passaggio dalla ruralità ai colletti bianchi, così dettagliato, approfondito, senza tentennamenti che alla fine ho preso 110 e la lode per una motivazione che porto ancora come vanto: perché il mio impegno civile si sarebbe distinto nella mia terra. “
Polemiche, diffidenza, turpiloquio: sui giornalisti italiani pare ci sia libertà di insulto. Io ne conosco di eccezionali che hanno dedicato e continuano a dedicare la propria vita all’inchiesta ed al racconto, svolgendo un ruolo fondamentale di coscienza civile per il paese. Nella mia formazione ho avuto l’onore di innamorarmi di questa professione, incontrando maestri della carta stampata, della televisione e della radio. Pari è stata la grande opportunità di scorgere la prospettiva per questo mestiere negli occhi, nelle idee, nell’intraprendenza e nella passione di diverse ragazze e ragazzi che sono felice di aver accompagnato per un breve tratto del loro percorso. Penso a Simona, Martina, Diana, Valentina, Andrea, Angelo, la redazione del nostro romacheverra.it, e a Claudia che ho conosciuto proprio grazie ad uno dei maestri, Vincenzo Vasile. Claudia Benassai di Messina: collaboratrice della Gazzetta del Sud, 32 anni, da 7 devota al lavoro della cronista, a volte tentata a lasciare, ma resistente nel segno dell’istinto, accompagnato all’impegno. Oggi ci saranno manifestazioni nelle piazze per rivendicare la libertà di informazione, contro gli attacchi alla stampa: a me va di partecipare, raccontando la storia di una giovane giornalista, libera, che non ama stare alla scrivania davanti al computer e, in onore degli insegnamenti della sua nonna, va a cercare e racconta storie che diffondono fiducia nei diritti e speranza.
La traccia: le storie da trovare e da raccontare
“Oggi sono trascorsi esattamente dieci anni dal giorno della mia laurea: Scienze dell’informazione, editoria e giornalismo all’Università di Messina. Era una facoltà a numero chiuso: ho scelto di frequentarla, incoraggiata da mia nonna, ma non da mia mamma che mi voleva medico. In realtà mentirei se affermassi che volevo fare la giornalista sin da bambina, forse non lo sapevo nemmeno a 18 anni quando ho scelto cosa studiare e probabilmente avevo dubbi anche a 22, ma una certezza c’è nella mia vita: sin da piccola, perfino nelle pagine del diario, ci sono rivendicazioni di giustizia. Quindi, ripensandoci oggi: o facevo l’avvocato o la giornalista.”
“Sono nata e cresciuta a Messina, dove non è stato facile capire come fare questa professione, io però avevo mia nonna. Lei mi ha illuminato per ogni mia scelta e sostenuto sempre. Sapeva già che non avrei mai potuto fare un lavoro per cui dovevo stare chiusa in ufficio senza la possibilità di dire la mia. Ho frequentato una scuola con un ambiente classista: mi sono fatta la fama di quella che, davanti alle discriminazioni, non stava mai zitta. Capelli lunghi, tratti gentili, ma spietata. A 17 anni ho deciso di vivere con nonna. Sono andata a farle compagnia mentre nonno era in ospedale e da allora non l’ho più lasciata. Il tempo dell’Università, frequentata ogni giorno dalle otto di mattina alle sette di sera, c’è stata lei al mio fianco. Era orgogliosa del mio impegno ed io di lei che ha cresciuto figli e nipoti di una famiglia numerosa. “
Da Panarea a Roma
“Nel 2008 mi sono laureata, dedicandole la mia tesi : Paessaggiando alle Eolie. L’uso metaforico del paesaggio delle Eolie nel cinema. Amo queste isole e le ho percorse per cercare le testimonianze di chi aveva conosciuto Antonioni e Rossellini quando avevano girato i loro capolavori in quei luoghi. A 21 anni ho raccolto di tanto di quel materiale che purtroppo ho in parte perso, non rendendomi conto del valore del lavoro che stavo portando avanti. Studiavo, scrivevo e lavoravo. Mi considero isolana, visto che tutte le estati do una mano a mio cognato nella sua frutteria a Panarea. Mai un ferragosto sdraiata al sole!
Dopo la laurea dovevo scegliere cosa fare ed io non volevo perdere tempo. Con la mia amica Giusy abbiamo deciso di andare a Roma: dormivamo in tre, con un’altra amica che ci aveva precedute, in una stanza a Torpignattara. Io e Giusy su un futon. Giravamo con Porta Portese a cercare casa, finendo anche a Settecamini non proprio vicine al centro. Non conoscevamo le zone, ma sapevamo quello che volevamo fare: le inchieste. “
“Chissà cosa volevano scoprire due studentesse messinesi a 22 anni! Se ci penso, mi viene da ridere. Abbiamo scelto la facoltà di Editoria e giornalismo della Sapienza. Io continuavo però a sentire la voglia di mettermi alla prova subito. Studiavo sempre con passione, ma dovevo scrivere. Per questo mi sono sbrigata con gli esami e ho cominciato presto a lavorare per la mia tesi sui giornalisti uccisi dalla mafia. In particolare ho analizzato le figure di Beppe Alfano, Mario Francese e Mauro De Mauro. Da messinese volevo capire su cosa avessero indagato e sul perché la stessa stampa li avesse dimenticati.”
Mito e realtà dei giornalisti antimafia
“Avevo il mito del giornalismo palermitano, altro che la sonnolente Messina, anche se, grazie a Beppe Alfano, mi sono dovuta proprio ricredere. Ho cercato tutti i riferimenti che mi potessero aiutare: mandavo mail, senza vergogna, presentandomi come una studentessa che voleva sapere di più. Così ho scritto a Salvo Palazzolo ( colui che mi ha girato il maggior numero di atti processuali), Enrico Bellavia, Bruno Carbone, Lirio Abbate. Il mio relatore, il professor Vidotto, mi prendeva anche un po’ in giro: “ma come pretendi che ti rispondano per una tesi!” Certo io non mi fermavo davanti ad una mancata risposta. Lirio Abbate mi disse di chiamare all’Espresso, sono rimasta in attesa, ascoltando la musichina di sottofondo, quando è caduta la linea, ho scritto: “mi faccia solo sapere se posso contare sulla sua testimonianza o non.” Dopo tre minuti mi ha telefonato.”
“Due sono, però, le figure fondamentali che non hanno solo risposto, ma mi hanno illuminato. Il primo è stato Bruno Carbone da cui sono andata per cercare informazioni su Mauro De Mauro. Il destino è strano: credo che abbia rilasciato a me la sua ultima intervista, durante la quale mi ha detto che, se fosse stato ancora all’Ora, mi avrebbe assunto subito, perché avevo il fuoco dentro.
L’altro maestro che è diventato per me una guida fondamentale è Vincenzo Vasile: non è un caso lo chiami prof e lo interpelli per ogni scelta e consiglio professionale. Ci siamo incontrati a Trastevere. Giusy preparava la tesi sulle giornaliste siciliane, quindi, per entrambi, poter parlare con chi aveva lavorato con le più importanti e conosceva tutte le inchieste del Sud, era un’opportunità eccezionale. Mi ha riempito di libri e di riferimenti e non ha più smesso di farlo.
Per la mia tesi ho incontrato anche alcuni parenti delle vittime con il timore di non sapere come affrontare il loro diverso rapporto con i protagonisti. Un lavoro intenso: dovevo metterci almeno sei mesi per scriverla, l’ho preparata in tre. “Volevo andare a lavorare!”
L’inattesa lode speciale
“Mamma non ti aspettare grandi voti!” Le ho detto, quella mattina di luglio caldissima. Avevo una media alta, ma non mi interessava. Ero fiera del mio lavoro e, soprattutto, volevo passare dalla teoria alla pratica. Non avevo calcolato la passione che avevo messo nella mia ricerca che è emersa durante la discussione. Mi hanno chiesto di parlare dei depistaggi nel caso di Beppe Alfano e poi di come si era evoluta la mafia nel mio territorio. Ho fatto un discorso sentito sul passaggio dalla ruralità ai colletti bianchi, così dettagliato, approfondito, senza tentennamenti che alla fine ho preso 110 e la lode per una motivazione che porto ancora come vanto: perché il mio impegno civile si sarebbe distinto nella mia terra.
Che soddisfazione! Avrei potuto bearmi un po’ del mio successo, ma c’era un treno che mi aspettava. Avevo già organizzato il trasloco degli oggetti a cui ero più legata e, appena salita sul vagone, mi sono addormentata.
Ho fatto la stagione a Panarea, in forma splendente, come sempre dopo mesi di studio profondo. A settembre però mi sono trovata davanti al bivio: dovevo dare un senso al mio percorso e cominciare a scrivere. L’ho fatto in un giornale online Infomessina. Non volevo però stare davanti al computer e limitarmi a passare agenzie e rispondere al telefono. L’indole è stata chiara con l’alluvione di Scarcelli.
“Non scrivo più mezza riga da casa!” Ho detto al direttore. Avevo un amico che viveva nella zona alluvionata: l’ho chiamato e sono andata a raccontare con le scarpe nel fango. Oltre alla polizia e i vigili del fuoco, c’eravamo solo io e la Rai quando hanno estratto i corpi delle vittime. Io che non ero ancora giornalista. Sono stata un giorno e mezzo nel paese, conoscendo e raccogliendo storie come quella del barbiere che aveva salvato gran parte degli anziani del posto. Ho fatto un gran lavoro e capito che era quello che volevo fare, non occuparmi solo della trascrizione di comunicati stampa e delle attività del Comune.”
Dal Carrettino a Francoforte
“A 25 anni pensavo di dover lasciare Messina per interpretare il lavoro di giornalista come volevo io, ma prima ho incontrato Dino Sturiale, un singolare fotoreporter che si occupava di antimafia. Il suo settimanale, “Il carrettino delle idee”, è stata la mia palestra professionale. Nulla era impossibile per raccontare quello che ritenevamo giusto far conoscere. Se si doveva parlare con un magistrato o con un pentito, si andava. Abbiamo parlato dei Testimoni di giustizia tra Calabria e Sicilia. Ho potuto trattare storie che solo qualche anno dopo sono arrivate alla ribalta nazionale. Il Carrettino mi garantiva le spese, Dino le immagini ed io intervistavo e scrivevo.
Per i 25 anni dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, abbiamo organizzato uno speciale con una collega, già giornalista, incontrandoci al bar e fissando interviste dal procuratore Caselli a Sebastiano Ardita ( siamo state le prime ad incontrarlo.) Io ero sempre l’abusiva senza tesserino, ma andavo e portavo a casa il pezzo.”
“Ero però anche realista: dovevo cercare il modo per lavorare di più e con maggiori entrate. Impulsiva come sempre, ho deciso di andare in Germania dove una mia amica lavorava per un’agenzia che si occupava di trovare personale per le aziende locali. Con un solo colloquio telefonico sono stata assunta e, dopo due giorni, nonostante i dubbi di mia nonna, sono partita per un piccolo paese vicino a Francoforte. Mi sono impegnata nel mio nuovo impiego. Parlavo inglese, ma tanto a chiamarmi erano soprattutto italiani come lo zio di un ragazzo rimasto orfano che aveva parenti solo in Germania ed aveva bisogno di lavorare. In tre giorni ho trovato quello che poteva andare bene per lui e mi ha colpito che, in cambio, questo ragazzo che aveva pochissimo, mi ha regalato una scatola di cioccolatini. Era una storia da scrivere, perché io non riuscivo a smettere di interpretare così anche questo lavoro: come un’opportunità per conoscere una realtà significativa e a tratti angosciante, come quella dei lavoratori italiani in Germania. Ricordo le foto che mi portavano dei tuguri nei quali vivevano. Un giorno hanno ucciso un ristoratore a pochi passi dall’agenzia, e non ho resistito: ho chiesto al mio titolare se potevo andare a capire cosa fosse successo.”
La sfida della cronaca
“Mi mancava troppo scrivere e raccontare. Sono tornata a Messina. A quasi 30 anni, ho provato a mandare il curriculum alla Gazzetta del Sud, senza troppe aspettative. Non ho detto niente a nessuno, nemmeno a mia nonna. Ho portato i miei articoli per non avere rimpianti, per non dire un giorno che non avevo nemmeno tentato. E’ andata bene. Mi hanno fatto un contratto da collaboratrice esterna, così sono potuta passare per quel passaggio obbligatorio, anche secondo il prof Vasile: la cronaca.”
“Sintesi e velocità di scrittura: una bella sfida per la mia vena narrativa. Ho imparato a consegnare in dieci minuti, stare negli spazi e scrivere anche in mezzo al rumore di una piazza. Fino a quando, due mesi e mezzo fa, nell’operazione di restyling del giornale, mi hanno assegnato il compito di occuparmi delle storie dei messinesi. Devo trovarle, senza cercare quelle famose, ma le microstorie che incidono e danno un senso alle grandi storie. Interpreto questa mia avventura professionale che, per me, nuova non è, come un’opera di ricostruzione della speranza dalla conoscenza delle vicende umane di chi dedica la propria vita ad un obiettivo, un talento, una missione. E le mie storie piacciono: ricevo riscontri non solo da coloro di cui scrivo, ma da tanti lettori. E’ un impegno continuo, cerco spunti che permettano di conoscere anche la nuova realtà di Messina come Walid, studente messinese che ha vissuto gli orrori della guerra in Siria. Quando l’ho intervistato, ho trattenuto a stento la commozione, immedesimandomi nelle sue difficoltà, ricordandomi che l’empatia è fondamentale e non toglie obiettività al racconto.”
“E’ ancora dura, continuo a barcamenarmi, in bilico, però con un contratto che mi permette di fare ciò in cui non ho mai smesso di credere. Ci sono giorni che ho dubbi su questo futuro incerto, poi però penso a mia nonna. Mi ha lasciato l’anno scorso, non senza un suo ultimo segnale. Andavo a trovarla tutti i giorni in ospedale, dove finchè è stata lucida, mi presentava, come sempre, con orgoglio: “Claudia, mia nipote giornalista.” Nella sua stanza c’era una signora che mi accoglieva con la Gazzetta del Sud e la domanda quotidiana: “Claudia cosa c’è di tuo oggi nel giornale?” Nonna se ne è andata sapendo che stavo realizzando il nostro sogno di rivendicare giustizia attraverso il mio mestiere di giornalista.”
La traccia volante: La palomba muta non è sentuta. Me lo ripeteva sempre nonna: l’unica cosa che ci resta è la parola per farci sentire.
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