“Per questo non ho mai pensato di non farcela. Il dolore c’era e c’è, ma, davanti ad esso, non mi sono mai disperata. Lo si vive come un evento ineluttabile con la serenità di pensare: se non ci fossimo stati noi, se non avessimo dato tutto, era destino, ma, nel tempo concesso, abbiamo dato la possibilità di vivere meglio. “
La traccia: segni d’amore e di condivisione
Ci sono luoghi dei quali fa paura solo la targa sulla porta perché evoca l’inaccettabile realtà della malattia dei bambini. I reparti di oncologia pediatrica richiedono un respiro prima di parlarne, eppure c’è chi, nelle stanze dove piccoli pazienti con le loro famiglie lottano insieme a medici e personale straordinari, riesce a portare il sorriso e tenta di non far fermare la normalità. L’associazione Amici di Marco D’Andrea dal 1999, ogni giorno, nel reparto di oncologia pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma, organizza merende, laboratori, giochi, feste e lascia, con i suoi volontari, una traccia di amore. A coordinare tutto, nel sottomarino giallo, come è stata ribattezzata la clinica, dopo i lavori di ristrutturazione con colori e disegni dai fondali marini, effettuati anche grazie all’impegno dell’associazione, c’è il comandante Anna Maria Festa. Insegnante di lettere in pensione, da Milano a Riano per amore, sempre con l’Inter nel cuore come i suoi figli e nipoti, racconta quanta strada, quanta fatica, ma anche quanto entusiasmo e determinazione abbiano messo per dare un senso profondo e reale alla condivisione. A febbraio l’associazione compie 20 anni.
“Nel nostro carrello mica c’è il plum-cake del supermercato preso dal nostro armadietto, scartato e servito. Noi abbiamo le crostate fatte in casa e le pizzette preparate dall’amica che non va a dormire per sfornarle. La scorsa settimana una mamma, con delicatezza, mi ha fatto notare: “che bello oggi il carrello, però la pizza non c’era.” Sanno che noi ci mettiamo il cuore nel preparare le merende che offriamo, sentono il profumo della cucina e per questo ci chiedono ciò che più loro piace. Noi proviamo ad accontentare tutti: se non che lo facciamo a fare!”
Per vincere un senso di colpa
“E’ così da quasi 20 anni, da quei giorni terribili in cui Marco, mio alunno al liceo scientifico di Morlupo, si ammalò e i suoi compagni non vollero lasciarlo solo. L’associazione è nata proprio da loro, dalla rabbia perché Marco, purtroppo, non ce la fece e dalla volontà di non interrompere quei pomeriggi nei quali avevano scoperto quanto fosse importante andare a portare momenti di normalità a chi, spesso coetaneo, si trovava a vivere un periodo così difficile. La vita quotidiana che prova a non fermarsi e a combattere contro la malattia. Io ci sono stata da subito, Maurizio mio figlio, era tra gli amici di Marco che era un mio alunno e che conoscevo da bambino, avendolo seguito anche come catechista. Io ho spronato i ragazzi ad andare in ospedale da lui, ma quando si è presentata la recidiva, dopo il secondo intervento, ho mollato, non ce l’ho fatta. Per quel senso di colpa di non avergli stretto la mano fino all’ultimo, ho voluto che, da subito, creassimo l’associazione e, da allora, non ho più lasciato la mano di nessuno dei piccoli pazienti, ho trovato la forza di lottare con loro, ma anche di chiudere i loro occhi quando non c’era più nulla da fare.”
Entusiasmo, sostegno e rete
“Erano anni diversi quelli lì. Con la mamma di Marco abbiamo scritto lo statuto e costituito l’associazione, trovando un’accoglienza ed una risposta pronta da tutte le istituzioni politiche del territorio. Abbiamo creato da subito un nucleo operativo, forte, con le altre realtà che operavano nel nostro stesso campo. Non solo: coinvolgemmo il coro della città di Roma così riuscivamo a far conoscere la nostra esperienza anche nelle scuole. Con il sostegno e il senso di condivisione dei rappresentanti degli enti pubblici, nel 2000, abbiamo già organizzato il progetto Burattini in ospedale. La reazione dei bambini, dei genitori e anche di tutto il personale sanitario ci ha fatto capire che c’era bisogno di noi. La consapevolezza piena l’abbiamo avuta quando non bastava più portare la merenda, ma ci veniva chiesto di più. Ci siamo interrogati e abbiamo capito che dovevamo inventarci nuove idee. Io bussavo a tutte le porte per portare il fuori dentro in maniera allegra e positiva. Sono arrivati così i primi computer, le attrezzature per i laboratori e per la cucina. Non c’erano tutti comfort di oggi. Io rompevo le scatole e trovavo riferimenti che capivano la mia determinazione e mi aiutavano a farla diventare realtà. Abbiamo ottenuto di ridipingere il reparto, ora il nostro sottomarino, e poi feste e mercatini in ogni contesto per raccogliere le risorse per aiutare i genitori nei viaggi verso altre strutture specializzate.”
“Per questo non ho mai pensato di non farcela. Il dolore c’era e c’è, ma, davanti ad esso, non mi sono mai disperata. Lo si vive come un evento ineluttabile con la serenità di pensare: se non ci fossimo stati noi, se non avessimo dato tutto, era destino, ma, nel tempo concesso, abbiamo dato la possibilità di vivere meglio. Quanti volti, quanti sguardi, quanti sorrisi e lacrime ho nel mio cuore, ma ho anche le risate di chi non c’è più. Quando abbiamo fatto venire in reparto i giocatori delle squadre preferite, regalato proprio la bambola o il super eroe che si voleva, portato per un giorno nel luogo dei loro sogni. Quando non li abbiamo fatti sentire malati. Da qui si prende la forza e si trova anche l’energia per gestire i volontari che oggi sono 40.”
Volontari zucche magiche e cetrioli
“Sono tanti, tutti formati. Lo facevamo anche prima che la legge ce lo imponesse. Non si può improvvisare un impegno del genere. Non mancano anche da noi i “cetrioli” che pure con la bacchetta non riescono a diventare zucche magiche, ma proviamo a incanalare il loro bisogno e la loro volontà in progetti costruttivi. Difficilmente poi ci lasciano. La nostra psicologa era una “tusetta” quando abbiamo cominciato, ora si occupa di coordinare i volontari.
In questa parte della nostra attività ci appoggiamo al Cesv. Di solito chi chiede di venire in reparto con noi lo fa per superare un dolore, oppure, principalmente, sono studenti di medicina che vogliono apprendere una materia che manca nei loro studi universitari e che capiscono essere fondamentale: l’empatia. Però bisogna sempre stimolarli, ed io non mi fermo mai nel chiedere loro idee per raccogliere fondi, per organizzare eventi e occasioni diverse in reparto.”
Nuove idee per esigenze diverse
“Oggi la situazione è diversa. Per fortuna diminuiscono i numeri, per l’aumento delle possibilità di guarigione e delle strutture specializzate anche a Roma che operano con buoni margini di risoluzione della malattia. Qui da noi i piccoli pazienti trascorrono i periodi per le terapie, che si ripetono a cicli, non abbiamo la chirurgia, però abbiamo stretto convenzioni con quelle dei maggiori ospedali nazionali e internazionali per poter indirizzare le famiglie quando i bambini sono nelle condizioni di essere operati. Nel sottomarino passano circa 500/600 pazienti l’anno. Sono cambiate le loro esigenze. Se non si inventa qualcosa di realmente coinvolgente, preferiscono stare nelle loro camere con i tablet o a vedere un film. Anche le famiglie hanno bisogni diversi, ci chiedono aiuti economici, ma riconoscono ormai la nostra presenza come fondamentale.
Il mese scorso è stata ricoverata una bambina di Morlupo per degli accertamenti. E’ tornata a casa e la mattina, appena si è svegliata, ha chiesto alla mamma: “dove sono le volontarie? Mi mancano”.
Più soli ma si resiste
“Noi ci siamo e speriamo di non mancare mai, peccato che in questi anni si sia persa l’attenzione delle istituzioni a quanto facciamo. E’ difficile trovare punti di riferimento e si sta rischiando di sciogliere anche la rete. Tutto è sulle spalle e le energie dei singoli.
Sia chiaro: noi non molliamo. Ogni anno abbiamo un progetto nuovo. Abbiamo coinvolto i bambini con il tema del mito, la lettura partecipata delle favole. Non abbiamo solo raccontato che Cappuccetto rosso porta i biscotti alla nonna, li abbiamo cucinati insieme. Con loro abbiamo dimostrato quanto da una fiaba si possa ricondurre ad una visione diversa, catartica della realtà. Anche io continuo a fare formazione con le socie storiche per non rimanere indietro nemmeno dal punto di vista legale e strutturale. Le energie sono un po’ meno, ma non mancano quelle per pungolare i volontari a creare, ideare ad esserci anche con la testa. Bisogna dare un significato alla loro attività. Abbiamo superato crisi e commissariamenti, ma non abbiamo mai saltato una merenda e, per qualsiasi esigenza, anche i medici sanno che noi ci siamo. L’Italia è un’eccellenza nella cura dei tumori infantili, lo dicono i dati delle organizzazioni come la FIAGOP, deve esserlo anche nella cura del cuore e dell’umore dei pazienti.”
Romina e Arlona quegli occhi per cui continuare
“I bambini senza speranza sarebbero morti lo stesso, ma noi abbiamo ricostruito, anche nella loro memoria, il reparto. E’ una storia di valori la nostra. Ci sono quegli occhi che non si dimenticano come quelli di Romina: dopo due anni nel reparto era la sorellina e la nipotina di tutti noi. La mamma ha vissuto per un po’nel mio comune, così potevamo continuare a starle accanto. Arlona, invece era bellissima, nel libro con cui celebreremo il ventennale, metteremo le sue foto prima della malattia, il suo sorriso luminoso che abbiamo provato a far rimanere acceso fino all’ultimo. Abbiamo accolto bambini dall’ex Kossovo e dall’area del Magreb. La nostra lingua composta di gesti concreti, abbracci e comprensione oltre la parola ha fatto sentire tutti a casa, pure se in un ospedale di un paese lontano.”
“Sono tutti nel cuore, ma la comunicazione è fondamentale perché rimanga traccia di questo nostro impegno. Quasi mai abbiamo perso il contatto con i pazienti guariti, anzi sono loro a voler rimanere legati a noi. Continua il rapporto anche con le famiglie di chi non ce l’ha fatta.
Gli amici di Marco sono sempre presenti: a Natale, alcuni di loro, si travestono da Babbo per portare i regali ai bambini. Abbiamo un gruppo su facebook che voglio venga aggiornato quotidianamente con il racconto delle attività svolte e se possibile delle emozioni provate. Dal 2012 c’è pure la chat su whatsapp. La correlazione deve essere costante. So che per alcuni volontari è un peso in più, ma serve per capire quando abbiamo agito bene e dove possiamo invece migliorare. “
20 anni con il Piccolo Principe
“Perché si può sempre fare di più. Per questo anno abbiamo pensato ad un progetto sul Piccolo Principe, il romanzo di Saint- Exupery è da leggere e rileggere anche da adulti. Per i bambini invece è un inno poetico ad accettarsi anche se diversi. Così celebriamo i nostri 20 anni. Inoltre, come abbiamo fatto per il decennale, stiamo preparando un libro con le nostre storie attraverso diverse testimonianze, dedicato alla piccola, meravigliosa Arlona.”
Traccia volante: La capacità di spendersi che non è mica una roba facile.
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