Alle 20.30, precise, mani un po’ fredde e sorriso leggermente isterico, accolgo il sindaco ed il suo vassoio di gelati.
I primi giorni che camminavo per le mie nuove tranquille vie, presa dalla diversa dimensione esistenziale, interrogandomi sulla trasformazione delle auto in bici, capitava spesso di imbattermi in un ragazzo con gli occhiali e uno zainetto leggero sulle spalle ( ho capito essere una appendice caratteristica di quasi tutti gli uomini, adulti, pesaresi). Lo avevo visto già in televisione e sapevo fosse il sindaco. La prima volta mi sono quasi emozionata, poi ho preso l’abitudine, sentendomi la protagonista di un racconto di Guareschi, di salutarlo con affabilità: “buongiorno sindaco”; “buona serata sindaco”, o, semplicemente “ciao sindaco”. Ho saputo poi che abitavamo a poche strade di distanza: qui a Pesaro è difficile non incontrarsi, evenienza che vale anche nell’ipotesi negativa non si vogliano più vedere persone non gradite. Il sindaco, però è simpatico, cordiale e mi pare tenga molto alla sua città. Mi sono impicciata della sua storia e ne ho avuto la conferma.
Gli amici romani scherzavano: “l’hai visto oggi Matteo?” “Che te dice Ricci?” Fino alla presa in giro, spero non consapevole, di Viola, che ogni volta che lo vedeva, anche in tv, esclamava: “guarda mamma, c’è ciao sindaco!”. Se la mia conoscenza con il primo cittadino si fermava ad un gentile saluto, è stata mia madre a rompere ogni formalità. Da una battuta ad una pacca sulla spalla, fino all’interrogazione sui problemi del centro storico, mamma, la signora bionda di Trastevere, si è fatta romana tra i pesaresi e, dal sorriso è passata al “tu” condiviso. Siamo abituati a questo modo di fare che riesce ad infrangere il muro delle diffidenze e a portare alla conoscenza dell’albero genealogico di negozianti, vicini di casa o di ombrellone. E’ parso quindi naturale, quando è stata presentata l’idea del “sindaco a cena”, provare a mandare l’invito da parte della famiglia romana: i chiassosi e calorosi Scafetta.
Scettici ed entusiasti
“Tanto non verrà mai!” Gian, ostentava cinismo. “Provaci, ma povero Matteo, riceverà molti inviti, non offendiamoci se non risponde” E’ stato, invece, l’atteggiamento della confidente mamma. “Ma stare un po’ tranquilli, senza mettersi sempre in mezzo, no!” Il pragmatismo asociale di mio cognato ( lo definirò sempre così per evitare querele). “Dai, dai, sai che casino con i bambini, però ci divertiamo!” L’entusiasmo incosciente di mia sorella.
In questo clima, tra opposti fuochi, nessuno molto ardente, mi ha raggiunto la telefonata della segreteria del sindaco. Abituata a stare dall’altra parte, ho risposto in automatico ad alcune domande, senza pensare che il nostro descriverci come nuovi cittadini, attirati dalla provincia, con una prospettiva metropolitana ed uno sguardo comunque critico, poteva rappresentare una bella sfida culturale e politica. Non credo poi che si sia collegato il cognome, né alla salutatrice compulsiva, né alla insolita confidente bionda.
“No, ma davvero, sei matta, ora dobbiamo sistemare tutta casa, che prepariamo per cena? Bisogna sempre farci riconoscere!” La reazione di Gian che poi, però, come d’abitudine, si è messo a disposizione, andando persino a comprare i due lampadari mancanti, oltre al vino buono e un paio di bottiglie di prosecco (l’invitato, qualsiasi sia la sua carica, non può mai rimanere a bocca asciutta a casa nostra). “Allora preparo la pizza con la scarola, il roast beef, il tiramisù …”, mamma si è mostrata pronta all’azione. “Voi non vi regolate, io mica lo so se vengo”, le resistenze del cognato, inversamente proporzionali all’“Evvai, facciamo una bella amatriciana!” di mia sorella. “Basta che non viene quando c’è la partita della Roma.” Ha chiosato, con pragmatismo giallorosso, quel tifoso insospettabile che è papà.
Il clima mi ha consentito, perciò, di attendere la data con relativa serenità. Se non fosse che, due giorni prima della cena, ha cominciato a girare un comunicato stampa che poi è diventato un articolo di alcuni giornali locali: “Ricci domenica a cena a casa Scafetta”. Pochi dettagli identificativi ed una mia dichiarazione giuliva e generica sui temi da affrontare. Tanto è bastato a far montare una lieve ansia.
“C’è scritto Scafetta, bene!” Il commento di Gian e cognato. Mamma e sorella hanno sorriso, sornione. Papà non si è espresso. Io ho iniziato a sentire la responsabilità di: ordinare la casa; reperire stoviglie per 10 persone; imporre tono di voce ed abitudini acconce ai bambini, super eccitati per l’evento; definire un minimo di accordo interno sui temi da trattare; provvedere alla tinta dei capelli e, soprattutto “come mi vesto?”
Spolverata generale e in effetti generica; scelta di un allestimento casuale, ma allegro della tavola; divisione delle portate con attenzione particolare al primo, assegnato al cognato per investirlo ancor di più di responsabilità; breve lezione montessoriana ai piccoli “se fate casino, vi chiudiamo a chiave in una stanza!”; libertà rischiosa, ma con fiducia, sul tono e gli argomenti della discussione; tinta fatta, abbigliamento sobrio, maglione rosso portafortuna.
Alle 19 di domenica, la famiglia Scafetta è pronta ad accogliere gli operatori per la diretta facebook, con una certa, forse ostentata, disinvoltura. I ragazzi sono stati gentilissimi e discreti anche se il salotto sembrava il Delle Vittorie e Viola si è lasciata scappare: “questa volta divento veramente famosa!”. Smontandomi la camicia, in un’operazione imbarazzante, ho preso la responsabilità di indossare il microfono per provare a dare un minimo di coordinamento al dibattito famigliare.
Mio cognato ha portato il sugo con guanciale e pecorino a parte, ma vuole uccidermi; Gian ha predisposto tutto in maniera impeccabile, minaccia però il trasferimento oltre confine; mia sorella se la ride; i bambini appaiono ormai posseduti.
All’arrivo di mamma e papà abbiamo provato un siparietto per allentare la tensione: facciamo loro un applauso con la complicità anche degli operatori.
Tutti a tavola e stica…!
Alle 20.30, precise, mani un po’ fredde e sorriso leggermente isterico, accolgo il sindaco ed il suo vassoio di gelati.
Ci sediamo e, potere della tavola, della nostra affabilità congenita, della sfacciataggine romana, siamo tutti più sereni. Un sospiro di sollievo, le telecamere spariscono ed iniziamo un surreale dibattito sulla differenza tra la pizza da forno romano e la Rossini. I miei si accaniscono contro la mayonese e l’uovo sodo, mentre io mi lancio nell’elogio della bianca bassa e scrocchiarella di Campo dè Fiori, sostenuta da Lilli. Gian e il cognato si prestano a servire. Il sindaco che diventa subito Matteo, anzi, A Mattè, difende strenuamente la specialità locale.
Luca irrompe con la maschera da mostro mentre Valeria Luce ripete senza sosta: canzoncine, conte e richieste. Viola e Francesco, impeccabili nel look e nel ruolo, preparano domande per il loro intervento.
All’arrivo dell’amatriciana, il primo cittadino è già trasteverino e si abbandona ad una esclamazione pertinente che accompagna la liberazione dal maglione: “Fa caldo, pure se si sposta il microfono, Sti cazzi!”
In un contesto normale, sarebbe piombato il silenzio: a casa Scafetta, scatta l’ovazione. Le mezze maniche, ben condite, si lasciano mangiare, mentre iniziamo ad affrontare temi di sincero interesse per la città: dalla necessità di luoghi per la cultura, alla risistemazione degli esistenti in disuso; il recupero dell’uso quotidiano del parco Miralfiore; una maggiore disponibilità dei parcheggi; la crescita dell’offerta turistica; il problema angoscioso della droga in città; la percezione della sicurezza fino alla consapevolezza dei limiti legislativi dell’agire del sindaco per arrivare alla necessità di collaborare tra le diverse istituzioni e i cittadini, senza omettere la scottante esigenza dello spostamento del canestro nel campo di basket di Francesco, e insistendo sulla sistemazione della palestra di Viola. Per chiudere con l’impellente bisogno di un concerto di Jovanotti e dei Kiss all’Arena Adriatica.
“Ma c’è qualcosa per cui la città non ti ha seguito?” La domanda ficcante dei due piccoli inquisitori che non si sono spostati, foglietti alla mano, fino a quando l’intervistato non ha riposto. Matteo non si è tirato indietro, come non si è stupito dei racconti di papà “a braccetto con gli spacciatori di trastevere”: la mancata attenzione alle telecamere ha trasformato, in effetti, il racconto sulle modalità per riconoscere lo spaccio dalle finestre del vicolo, in una pagina di Suburra. “Ti ho raccontato quando è venuta una delegazione dall’Unione sovietica… “ è invece il tono dei momenti di scambio riservati tra il sindaco e mamma, che risponde con altri ricordi di gioventù.
“Nonna, ma lo sai che sei in diretta su facebook?” ha provato a contenerla Viola. “Ma che dici? Figurati. Santo cielo!” I commenti sui social però aumentano, tra essi scorgiamo le battute degli amici romani e pesaresi.
La carne, gli straccetti con la rughetta ( a chiamarla rucola proprio non riesco), si fredda, perché la conversazione prende anche Gian e il cognato che si distraggono da quello che doveva essere solo un ruolo di mero servizio e di comparsa. Luca e Valeria Luce si incastrano tra le telecamere. I suoni si confondono. I gelati del sindaco si sciolgono nel tiramisù di mamma “che guai a te se non ne assaggi un pezzetto!”. Dalla camera di Viola provengono inquietanti rumori di battaglie di palle e cuscinate. “Se me rompono il letto porto il conto al comune” commento, da elegante padrona di casa. Prendendo spunto da tale signorilità, Matteo ormai esanime, decide di chiudere la diretta, ricorrendo ad un altro, sempre pertinente, “stica”.
Mentre gli operatori sistemano e raccolgono fili e batterie, si continua a chiacchierare. E’ quasi mezzanotte quando liberiamo il sindaco, Matteo, a Mattè.
Ci abbracciamo un po’ tutti: i bambini, svegli come fosse mezzogiorno, corrono ormai indifferenti alla presenza.
E’ avanzata un po’ di amatriciana ( per fortuna non ho messo io la pasta che esagero sempre), il cinismo è finito come pure il vino: anche se il sindaco ha bevuto poco, gli Scafetta non so’ astemi. Ci abbiamo messo un’ora per sistemare tutto, ma con allegria.
E’ stata una bella serata, inattesa nel clima, nel calore, ma anche nella nostra compattezza di squadra. Monta quindi la consapevolezza che a Natale bisognerà invitare di nuovo Matteo o qualcuno per lui, così finalmente riusciremo a mangiare sereni, senza correre, senza preoccuparci dei bambini che gridano, senza guardare i telefoni, ricordandoci che siamo una bella famiglia, accogliente nel gran chiasso. Capaci, quando serve, come il sindaco insegna, di liberare un’espressione, inserita all’articolo 7 della costituzione romana di Rocco Schiavone, che indica la necessaria leggerezza con cui affrontare la vita.
Bella Mattè, t’en botta!
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