“Sembrava tutto facile. Eravamo stati a fare una gita sul lago di Garda in barca, il 21 giugno, il 9 luglio sono stata ricoverata, d’urgenza, a Firenze, con il medico che diceva che forse non avrei superato la notte. La fibrosi è così: dalla gioia al declino.”
Ho incontrato Asia D’Arcangelo in un bar di Pesaro, una sera tiepida con il timore di pioggia. Avevo visto un video su youtube nel quale raccontava la sua storia con una disarmante naturalezza. La lotta sin da bambina contro una malattia subdola e inesorabile come la fibrosi cistica: i trapianti, sì, due trapianti di polmoni, la perdita dell’udito, le corse in ospedale per le crisi respiratorie, e in mezzo a tutto, la vita, la musica, gli amici, l’Università, persino l’uncinetto. Quando ha accettato di vedermi, ero emozionata come se dovessi incontrare Iron Man. Ed è arrivata lei, bella e solare nei suoi 22 anni da scricciolo di ferro. Una voce sottile che non si è fermata per due ore di conversazione. La sua storia è un dono, lo è stato per me, e, credo lo sarà, per chi combatte come lei, ma anche per chi ha nemici meno definibili, che impediscono di scoprire la meraviglia delle piccole cose intorno. Il suo narrare colpisce nella precisione delle date, impresse nella sua memoria come i tatuaggi sulla sua pelle e per le parole, ognuna con un significato perfetto per dare un senso ai passaggi della sua avventura titanica. Per questo ho deciso di non tagliare, di adeguare il mio scrivere ai suoi salti temporali e di dividere in due parti il racconto di chi ha già vissuto tre vite.
La traccia: la positività nonostante tutto
“Immergeradeause, in tedesco significa “sempre avanti”, si usa per le indicazioni stradali, ma tatuato sul mio braccio ha un significato diverso. L’ho fatto dopo il primo trapianto quando iniziava a degenerare la mia situazione, dopo una polmonite devastante e già galoppava il rigetto. Era il 13 marzo del 2015. Di tatuaggi ne ho 16, lavoravo come segretaria nel negozio di un tatuatore vicino casa. A due sono particolarmente legata. Il primo è il ragnetto che ho sul polso: sono aracnofobica, ma me lo disegnava sempre, con la penna, mio zio che ne ha uno uguale nello stesso punto. Mio zio è vivo, sia chiaro, perché quando racconto c’è la tentazione di pensare che tutto quello che mi riguarda sia tragico. E poi ho un bacio della mia mamma sul fianco. Lei lo ha stampato con la sua bocca su un foglio, il tatuatore lo ha ripassato e me lo impresso sulla pelle. L’ho fatto a 16 anni.
La bambina e la ballerina
“Mia mamma ha avuto un ruolo fondamentale nella mia vita e nelle mie battaglie, sin dall’inizio. Non avevo ancora due anni: mangiavo per 20 bambini, non prendevo un etto e sporcavo troppi pannolini. Mi cambiava anche 30 volte al giorno. Non assimilavo. Per la pediatra era attribuibile ad una fase di crescita, mia madre volle approfondire. Andammo al Sant’Orsola a Bologna, dove a 18 mesi ha avuto la diagnosi: fibrosi cistica. Mi ha salvato l’intuito di una ballerina. Papà è un cantante lirico e mamma danzava, ma ha lasciato tutto per stare con me. Non ha, però, mai perso la sua eccezionale vitalità: nonostante la malattia, è stata tutto il contrario di una madre apprensiva. Era lei a spingermi ad uscire, ad andare al cinema con la febbre, a volere che andassi a ballare. Io, che sono da pizza a casa con gli amici e non ho mai voluto strafare! L’unica volta che sono andata in discoteca, sono stata trascinata da una mia amica a 15 anni e mi sono fatta venire a riprendere dopo solo un’ora.”
“Ho sempre amato la musica, con i miei genitori l’avevo nel DNA. Ascoltarla, provare a suonare e cantare, ma non il rumore o i suoni forti. Con mamma la musica non mi è mancata mai, anche in macchina quando per i primi 7 anni di vita, ci svegliavamo alle 4 per essere alle 8 nel Centro fibrosi cistica di Verona. Io ero piccola e dormivo, mentre lei aveva solo 22 anni e doveva guidare. Lei che è sempre stata portatrice di positività, pronta a sdrammatizzare tutto, se penso che aveva l’età che ho io ora: non deve essere stato facile. Per questo cercammo di renderci la vita meno complicata e ci siamo spostate all’Ospedale Salesi di Ancona. Quando iniziavano le infezioni, ci inventavamo che partivamo per brevi viaggi: se la febbre passava, mamma firmava e si usciva dall’ospedale per andare a fare shopping.
La malattia non permetteva di programmare allora bisognava vivere al momento. “
All’apparenza tutto normale, ma in realtà…
“Sono stata responsabilizzata sin da piccola: conoscevo e gestivo con la supervisione di mamma, la somministrazione dei farmaci. Dovevo seguire le regole base: non stare troppo vicino a chi starnutiva e bere sempre dal mio bicchiere, ma provavo ad avere una vita normale. In questo, la fibrosi aiuta, perché è una malattia che si sa nascondere, quando non esplode in infezioni o crisi di tosse. Da fuori si poteva anche pensare che io stessi bene, ma purtroppo non era così. Nel 2008 mia mamma per la prima volta mi parlò del trapianto. Avevo 12 anni, uscivo da una sfebbrata terribile e che ne potevo sapere. Lei mi raccontò che la nipote della farmacista dell’ospedale da cui andavamo a prendere le medicine, malata di fibrosi, aveva fatto il trapianto.”
“Che schifo gli organi di un’altra persona, no!” Scoppiai a piangere, ma ero piccola. Proprio quell’anno però la situazione iniziava a precipitare, avevo sempre la febbre e dovetti ricorrere all’istruzione domiciliare. Non mi piaceva rimanere indietro, volevo continuare a studiare anche per tenere la mente occupata.”
Arriva il momento
“La fibrosi ti dà l’illusione in alcuni giorni di stare bene e poi ti attacca, inesorabile, a buttarti giù. L’estate del 2011 fu infernale. Non riuscivo più a mangiare, ero magrissima, senza energia. Un macello. Un pomeriggio, tornata in me dai deliri delle febbri altissime, ho guardato mamma e le ho detto: “mamma è arrivato il momento di pensare al trapianto.“ Il medico che mi seguiva sperava di poter rimandare ancora. Per me non si poteva più. Ci siamo messe a scegliere un centro trapianti più comodo per noi, per andare a fare i controlli, le analisi, le terapie. Provammo prima a Roma, ma non mi trovai bene, allora tornammo a Verona che si appoggiava al centro trapianti di Padova. Il medico mi vide arrivare senza ossigeno e pensò che non ci fosse bisogno, poi mi fecero una TAC e cambiò opinione, considerandomi anzi un’urgenza per cui non potevo stare nella lista di attesa troppo lunga nel loro centro. Ci indirizzarono a Firenze e quindi al centro trapianti di Siena dove incontrai un chirurgo adorabile, il dottor Luca Voltolini.
“Devi stare tranquilla, ci sono dei rischi, ma ti spiego tutto.”
“Ok è lui!”. Ho pensato. Mi ha fatto solo una domanda “Come stai?” ed io sono scoppiata a piangere: “Dottore non ne posso più!”.
Era il gennaio del 2012.
Ero uno scricciolo che si disperava con una tosse da camionista. Eppure Voltolini riuscì a calmarmi.
Mi mettono in lista d’attesa a Siena, ma non me lo dicono. Intanto, come è nello stile mio e di mamma, non appena sto meglio, partiamo. Prima Ibiza, poi Los Angeles. Proprio quando atterro dal mio volo di ritorno dall’America, mi avvertono e pensare che avrei dovuto stare al massimo a tre ore del centro.”
All’improvviso: Marco
“Quello stesso anno mi sono innamorata di Marco, il mio primo amore. Il mio rapporto con gli altri non è sempre stato facile, non ho mai raggiunto il livello di normalità che trapelava dai miei coetanei. Spesso mi chiudevo nel mio guscio perché non avevo voglia, ogni volta, di spiegare cosa avessi. Ho un mio gruppo selezionato di amici che non mi ha mai lasciato e mi ha dato forza.
Dall’estate del 2012 ho avuto anche Marco. Mi si presentò mentre ero sulla spiaggia ad aspettare un altro ragazzo. L’ho visto: biondo, con gli occhi azzurri, il fisico scolpito, abbronzato. Non c’ho capito più niente, ma ci siamo persi di vista. A settembre ho accompagnato, controvoglia, una mia amica ad un circolo con la promessa poi di una passeggiata al centro. “Che palle!” pensai, ma c’era Marco. Giocava a basket con un mio amico. Non l’ho più perso di vista, ma anche lui mi fissava. Era timido, gli chiesi io di uscire. Studiavo a casa, mentre lui era più grande, si era diplomato e mentre cercava lavoro, il pomeriggio era sempre al circolo.
L’11 ottobre del 2012, a 16 anni suonati, gli ho dato il mio primo bacio.
Durante una passeggiata a Viale Trieste, sul lungomare, gli domandai: “se ti dicessi che sono in lista?”
“Per cosa, per la spesa?” Provò a fare una battuta, ma aveva capito.
“Per un trapianto di polmoni, quando chiamano, dobbiamo andare.”
“Quando sarà, andremo.”
Dalla gioia al fondo
“Sembrava tutto facile. Eravamo stati a fare una gita sul lago di Garda in barca il 21 giugno e il 9 luglio sono stata ricoverata d’urgenza a Firenze con il medico che diceva che forse non avrei superato la notte. La fibrosi è così: dalla gioia al declino. Ero stata portata a Firenze con l’elicottero dall’ospedale di Ancona dove ero ricoverata. Ci sono arrivata alle nove di mattina, imbottita di morfina e calmanti per cercare di controllare i dolori forti.”
“I miei erano insieme dopo tanto tempo. Rivedo mio padre. C’è anche nonna Bruna, il mio punto di riferimento. Papà è disperato come non mai. Ho capito: ho toccato il fondo. Tolgo la mascherina che aiutava a ventilarmi e mi rivolgo a nonna che di solito è la melodrammatica della famiglia, ma la più forte. Le sussurro: “Fammi una promessa: dì a mamma che, anche se non sembra, ho tutto sotto controllo. Tocco il fondo, ma risalgo.” Dopo una notte insonne, circondata da mia madre, mia nonna e le infermiere che si alternano, vedo arrivare in ospedale mezza Pesaro. Mia madre li ha pure bloccati. Io ho capito: se sono venuti così in tanti a Firenze, vuol dire che è finita. “
La metamorfosi
“Mi portano in rianimazione, mi attaccano alla ECMO per l’ossigenazione extracorporea. Così vengo trasferita a Siena, dove divento emergenza nazionale, per 24 ore finisco anche nella lista europea.
Il 23 luglio del 2013 arrivano i miei nuovi polmoni. Io sono in coma da due settimane.
Quando mi sono svegliata è come se fossi la protagonista della Metamorfosi di Kafka. Mi ero addormentata cosciente a Firenze, rassicurando tutti con il pollice in alto, mi sono ritrovata intubata, immobile con una infermiera che mi ripete continuamente “non ti preoccupare, hai fatto il trapianto, stai tranquilla.” Mia mamma è oltre il vetro, ma non può entrare, non posso toccarla. Mi sono addormentata a luglio e mi hanno svegliato ad agosto. “
Quando ho potuto finalmente parlare con mamma che mi ha raccontato tutto, mi sono commossa, sono scoppiata a piangere e ho deciso, subito, quel giorno che sarei diventata testimone dell’AIDO.
“A ottobre sono finalmente tornata a casa, accolta da una via dei Partigiani in festa. Mi sentivo una bomba di energie. Ogni giorno vissuto come l’ultimo. Cominciai, io, ad andare a ballare, a far le 4 di mattina. Ero cambiata anche nel carattere. Mi sono ritrovata intransigente verso gli altri. Se uno mi si avvicinava e si lamentava con me per un mal di testa, sbottavo, lo avrei preso a pugni. Sapevo che dovevo prendere delle precauzioni, persino mia mamma mi raccomandava di stare buonina.”
“Il 2014 passa relativamente sereno. Nel 2015 inizia l’affaticamento, tosse, ma non avevo i sintomi del rigetto. Poi arriva la febbre alta e la situazione precipita. Torniamo subito a Siena e lì, dalla biopsia, si vede che i polmoni si erano irrigiditi. Abbiamo provato delle terapie, delle cure antirigetto, ma era già inutile.
La notizia della necessità del secondo trapianto me la danno ad Ancona, pochi giorni prima degli scritti per la maturità. Il giorno del tema mi sono addormentata, ma, alla prof che mi ha chiesto se andasse tutto bene ho risposto, pronta: “Si sì perché?”. All’orale avevo 40 di febbre: ho portato una tesina sulla mia storia, ci ho messo tutto. E il traguardo l’ho raggiunto. “
CONTINUA…..
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