“Per me il bar è stata una palestra di vita rivoluzionaria. Non mi sarei mai aspettata di fare la barista: un’esperienza splendida che mi porto dentro. Spesso quando vado in un locale di cui conosco i proprietari, mi viene naturale chiedere “ma posso fare un caffè?”. E’ stato importante per me lavorare con Vezio, perché si discuteva, ma c’era una complicità unica anche nel riconoscere le varie tipologie di clienti e quindi di donne e uomini. Ho imparato molto e lo rifarei per cento volte.”
Sarà stato il rumore dell’acqua in un lavandino pieno di tazzine o l’eco di una risata che usciva da un bar, mista ad un profumo di caffè, la mente è volata ad un luogo del cuore: all’improvviso mi sono ritrovata a Via dei Delfini nel bar di Vezio e Maria. Nella vita sembra che vengano assegnati ad ognuno di noi un pacchetto di posti nei quali ci sentiremo protetti. Pochi, diversi, non sempre facilmente riconoscibili, diventano quelle sedie, quegli aromi, quelle voci che saranno casa anche quando non ci saranno più. Per me, tra questi, c’è sicuramente la piccola latteria con la bandiera della pace sventolante all’ingresso, le foto di Enrico Berlinguer e di Roberto Pruzzo, il tavolone di marmo, il frigo d’epoca, il sorriso di Maria e l’inconfondibile battuta di Vezio. Un mondo racchiuso tra pareti ricoperte di ricordi, nel quale sono entrata a 18 anni. Dovevo scrivere uno dei miei primi articoli, un pezzo di colore per un giornalino di quartiere. Avevo deciso di raccontare quel singolare museo della sinistra, ed ho trovato la storia vera di un partito, di una fetta di paese, del cuore della città. Vezio mi rilasciò l’intervista e da allora non seppi resistere per anni al suo “che c’hai ragazzì?” non un banale “come stai”, ma una richiesta e un’analisi sincera dello sguardo e della postura, mentre prendevo il caffè. Il luogo nel quale io ho scoperto personaggi, aneddoti, sfogato proclami politici e problemi personali, è stato spostato nel 2005. Io lavoravo e nel nuovo non ci sono andata più molto, ma incontravo per fortuna Vezio e Maria in giro per Trastevere, anzi con Vezio facevamo chiacchierate sul tram. Nel 2011 il compagno Bagazzini ha salutato tutti quelli a cui aveva lasciato un frammento di sé, ad una più degli altri, la sua Maria. Maria Arcidiacono, bella e forte archeologa che sfidò la differenza di età, i pregiudizi e le difficoltà quotidiane per stare con il suo Vezio. In una giornata nella quale ho avuto bisogno di quei ricordi, ho chiesto a lei di raccontare.
La traccia: i ricordi di un bar e di un amore
“Sto provando a scrivere un libro sulla storia di Vezio e del bar, anche prima che io lo incontrassi. Quando ancora era vivo e si trattava l’argomento mi chiedeva: “ma chi se lo dovrebbe leggere un libro su di me?”
Io lo avrei letto. Ed ora sto cercando le parole giuste per raccontarlo.”
“La storia del bar di Vezio comincia molto prima di conoscerci. A piazza Margana c’era la macelleria del padre, nella quale Vezio lavorava. Qui ha cominciato a conoscere dei personaggi che frequentavano la zona come Giorgio Amendola, un cliente fisso per cui il padre, di fede repubblicana, convintamente antifascista, provava grande rispetto. Negli anni 60, Vezio si avvicinò al bar della famiglia di Francesca che nel 69 ha sposato, decretando il suo ingresso definitivo nei locali di via dei Delfini. “
“Non era ancora iscritto al partito, né aveva manifestato un impegno politico, ma si trovò coinvolto nella repressione dei moti di San Paolo, in stile governo Tambroni. Per quella manifestazione Testori aveva comprato a tutti i ragazzi delle magliette a strisce a via dei Giubbonari in un negozio nel quale andava spesso anche Vezio. Quel giorno scese con il trenino a San Paolo proprio con una maglietta a righe e quindi vide come colpirono e repressero i ragazzi. E’ stato però dopo il 12 dicembre del 1969, la bomba di piazza Fontana e le quattro bombe di Roma, che Vezio entrò ufficialmente a Botteghe Oscure.”
“L’economo del PCI chiese a Vezio di portare nella sede del partito le colazioni e i caffè, evitando rischi per i dirigenti. Così ogni giorno, insieme ad un banchista senese, più piccolo di lui, serviva cappuccini, dolci e pizza nel Bottegone, alle segreterie e ai piani alti. Nello stesso tempo il bar diventò un rifugio per chi scappava durante gli scontri. Vezio ripeteva che era come un saloon nel Texas: “armi e molotov si dovevano lasciare fuori.”
“Il piccolo locale di via dei Delfini è diventato quindi un punto di riferimento. Quando finirono i rischi di attentati, si era ormai creato un legame tra il partito e Vezio: i dirigenti venivano al bar a confrontarsi, discutere, chiarirsi. Si mettevano in fondo, nel retrobottega, al tavolo di marmo, dove non tutti potevano accedere, varcando un filtro invisibile. Abbiamo immortalato incontri tra anime e animi diversi del partito.”
“Per i clienti occasionali c’era la panchina sociale, sulla quale però si poteva passare indisturbati anche tutta la giornata.”
“Era un simbolo, un classico, un luogo da frequentare nel cuore di Roma. Me ne sono accorta mentre partecipavo all’occupazione della Facoltà di Lettere, era il 1989 – 90, gli anni della Pantera. Io mi appassionai come archeologa alla tutela di un casale vicino a via del Castro Laurenziano, un locale dell’Università che si voleva trasformare con una colata di cemento. Un giorno un mio amico astrofisico, Antonio, occupante come me, mi portò al bar di Vezio, facendomene una grande pubblicità. Rimasi colpita dal posto e mi era stato simpatico il barista, ma per un po’ di tempo non ci ripassai. Poi iniziai a lavorare in un negozio di antiquariato a via dei Banchi vecchi: preparavo la tesi e, finito di lavorare, andavo alla biblioteca a Palazzo Venezia. In mezzo c’era il bar dove andavo a prendere il caffè ogni giorno. Fino a quando, Vezio, che era ormai separato da anni, mi chiese di uscire.”
“La data scelta mi successe di tutto e abbiamo dovuto rinviare. Dopo poco lo chiamai e gli chiesi “a che ora chiudi?“ Risposta secca: “anche ora se vuoi.”
Volevamo andare a vedere Caro Diario al cinema, ma arrivammo tardi: al Nuovo Sacher erano rigidi, per cui finimmo a vedere il cartone Aladin alla Sala Troisi. Siamo andati a cena e non ci siamo più lasciati. Era il 3 gennaio del 1994. “
“Il 29 ottobre dello stesso anno ci siamo sposati. Al Campidoglio forse si ricordano ancora la nostra sfida con le pistole ad acqua sulla piazza. Non ci prendevano tutti sul serio per via della nostra differenza di età e anche di vita, allora ci abbiamo scherzato per primi noi. Era il primo matrimonio che celebrava un nostro amico, giovanissimo consigliere comunale, Enzo Foschi che ci è sempre rimasto vicino.”
“Vezio fece incidere nelle nostre fedi la scritta “nella bolla di sapone.” Una volta spiegò il motivo a Gianni Poggioli, direttore storico della Feltrinelli di Largo Argentina, suo amico, che lo conosceva come il rude ragazzo trasteverino. Gli disse che il nostro amore era bellissimo, come una bolla che riesce a far vedere tutti i colori, però bastava una rosa per scoppiarlo. Gianni ci pensò e poi commentò: “A Vezio ma che cavolo stai a dì?”
“La nostra storia però è stata veramente così. Una nuvola nella quale solo noi sapevamo come muoverci. Intorno amici, compagni, clienti, conoscenti. Avevamo i nostri ritmi. Io continuavo a preparare la tesi, lavorare dalla mia amica e aiutare la chiusura del bar. Poi ho cominciato ad andarci ogni sabato, alla fine, per dieci anni, sono stata fissa alla cassa. “
“Non mi ero mai tesserata, ero riluttante, proprio quando stavo per iscrivermi c’è stata la Bolognina. Il bar era ecumenico, come Vezio, che al di là della disciplina di partito, era un uomo libero, abituato ad andare a cantare con la Banda Bassotti nei centri sociali. Aveva posizioni critiche verso tutti i dirigenti, a parte Berlinguer che era intoccabile. E comunque nel bar poteva entrare chiunque, anche chi non era iscritto al partito, chi la pensava diversamente, i ricchi aristocratici di zona anche con origini di estrema destra. Quando ha saputo dello sfratto, Gelasio Caetani, rappresentante dell’aristocrazia nera ci disse: “ Io so’ solo fa’ a pugni, se ve serve…”
“Vezio aveva preso tutte le tessere della sinistra dopo la scissione, per lui c’era una deroga non scritta, poteva farlo e le esponeva al bar. “Vezio ma stai da Bertinotti a Prodi?” qualcuno lo provocava, a volte. “Io sto con tutti: io sto con il PCI”, era la risposta pronta.
Era legato ai dirigenti del partito, ma anche a rappresentanti della sinistra extra parlamentare.”
“Più difficile che al bar si sentissero a proprio agio dei laziali o degli juventini. La fede giallorossa era quasi più forte di quella politica. Vezio però era un tecnico, allenava nel tempo libero i ragazzi nell’impianto di Tor di Quinto, chi lo credeva un tifoso sfegatato sbagliava. Mi fa sorridere ripensare a quando andò allo stadio con Francesca, una ragazza che studiava alla Caetani e aveva la mamma che lavorava a Piazza del Gesù. Era tifosissima della Roma, tanto da convincere Vezio ad andare insieme a vedere una partita. Solo che lei si lanciò in cori, mentre Vezio seguiva senza sbilanciarsi, solo che diceva “goal” almeno un minuto prima che segnassero. Francesca rimase stupita come noi quando ci disse che avrebbe aiutato la madre a fare la campagna elettorale, perché era la figlia di Rosa Russo Jervolino.”
“Noi non chiedevamo ai clienti le generalità, per noi l’importante è che si sentissero bene nel bar. Con i giovani come Francesca, poi, Vezio ha sempre avuto un rapporto speciale.
Al bar venivano anche rappresentanti della FGCI, ma solo negli ultimi anni è diventata costante la presenza dei ragazzi della sinistra giovanile. Sono arrivati in aiuto del bar quando è stato deciso lo sfratto. Ci hanno seguito negli stand della Festa dell’Unità e supportato nei lavori a Tor di Nona. Vezio aveva un incarico onorario nella sinistra giovanile, partecipava ai loro congressi e alle iniziative. Ho ritrovato uno dei suoi discorsi: le sue parole erano sentite, ci teneva molto.”
“Il suo interesse e affetto sono stati ricambiati da un grande impegno dei ragazzi durante il periodo del trasloco. Si era pensato di trasferirci a via Palermo dove si era spostato il partito, poi dentro Rinascita, ma si avvertiva già la precarietà delle sedi. Quando ci fu lo sgombero degli immobili abusivi a via Tor di Nona, ci dissero dal Comune che era un’opportunità da non perdere. Vezio in realtà già non stava bene, voleva dare via la licenza ed andare in pensione. Non voleva farsi visitare dal medico, ma si sentiva stanco, io l’ho spronato: “dai che potresti cambiare vita, trovare nuovi clienti. “
“Volle organizzare un aperitivo con tanta musica, gli amici e i clienti di sempre, tanti che non si sa come riuscissimo a stare nel locale. Una festa per salutare il nostro vecchio bar.
L’ultimo giorno a via dei Delfini, però, Vezio non c’era. In realtà già da una settimana aveva deciso di andare nella nuova sede e seguire l’ultima parte dei lavori. E’ arrivato alla fine della mattina, quando abbiamo staccato il registratore di cassa. Lo abbiamo attaccato subito nel nuovo bar e fatto i primi scontrini.
Era il 10 marzo del 2005.
Mariangela Barbanente, una nostra affezionata cliente ha girato in documentario “Il trasloco del bar di Vezio”, sei episodi, con i tanti significati che ha avuto per molti. Cartolina per cartolina, cimelio per cimelio.”
“A ripensarci oggi è impossibile che non mi commuova. Per me il bar è stata una palestra di vita rivoluzionaria. Non mi sarei mai aspettata di fare la barista: un’esperienza splendida che mi porto dentro. Spesso quando vado in un locale di cui conosco i proprietari, mi viene naturale chiedere “ma posso fare un caffè?”. E’ stato importante per me lavorare con Vezio, perché si discuteva, ma c’era una complicità unica anche nel riconoscere le varie tipologie di clienti e quindi di donne e uomini. Ho imparato molto e lo rifarei per cento volte.”
“Nel 2000 con un gran ritardo mi sono laureata. Il professor Stefano Tortorella, un giorno disse: “Vabbene vi siete sposati, ma Maria ora deve finire gli studi. “ Ho consegnato la tesi dopo aver passato la notte nel bar per recuperare i dati che avevo perso per un problema al computer. Ho preso 110 e lode e Vezio mi ha detto che forse era il caso tornassi a fare il mio lavoro. Ho cominciato la mia collaborazione al Ministero dell’Interno, per progetti sul Fondo Edifici di Culto, ma ogni sabato aprivo io. Il bar era casa, quando arrivava Vezio ancora di più.”
“Ora faccio l’archeologa, la storica dell’arte, curo mostre: tante cose, sempre con la curiosità per gli altri e quella voglia di capire prima cosa vorranno. Quando penso a Vezio e a quegli anni, mi si apre il più grande dei sorrisi.“
La Traccia volante: Nella bolla di sapone. E’ lì che stava il bar, la sua storia, Vezio, il nostro amore. Ha dato colore a molti e lo fa ancora con il ricordo. Però ha resistito più di quanto tutti potessero pensare.
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