Claudia fa respirare la fantasia nel legno

“La falegnameria è uno strumento di comunicazione. Ritrovare il modo di comunicare è fondamentale. Fare con le mani, guardarsi negli occhi e collaborare è una necessità, purtroppo non più frutto di un percorso spontaneo tra gli adulti. Per fortuna, tale naturalezza resiste tra i bambini.”

A Catania, lungo via Etnea, la strada che dal Duomo porta alla Montagna, c’è un piccolo laboratorio nel quale una donna con i capelli corvini, gli occhi profondi e le mani sapienti trasforma il legno in giocattoli. Ritagli che chiunque butterebbe ad ardere in un camino prendono una forma e diventano macchinine, gabbiani, trottole, acrobati danzanti. La sua arte si tramanda, per magia arriva sui tavoli di falegnomi, bambini senza paura di martelli e seghetti, che lasciano andare libera la loro fantasia e si creano da soli i loro giochi. Claudia Barone è la giocattolaia, ha trasformato una passione dell’infanzia nel suo lavoro, non solo: ne ha fatto uno strumento di comunicazione, fondamentale anche nelle attività con ragazzi disabili, e di resistenza culturale. Il segreto è ripartire dalla semplicità di gesti antichi, condivisi, per ritrovarsi. Per me che non so nemmeno costruire un aeroplanino di carta e nascondo gli orribili lavoretti di mollette e ovatta, malfatti con Viola e Luca, va oltre il mastro collodiano, per evocare le suggestioni di un’eroina di Miyazaki. La sua traccia porta ancora più lontano.

La traccia: giochi e fantasia in legno

“Con mio fratello prendiamo sempre in giro i nostri genitori che adoriamo, dicendo loro che ci hanno cresciuto in Unione Sovietica. A parte averci fatto viaggiare tantissimo, in paesi come l’Uzbekistan o il Turkmenistan dove non capita di andare normalmente, in casa nostra non ricordo giocattoli comprati o regalati. Forse un passeggino donato dai miei nonni, mentre l’unica bambola me l’hanno fatta dare ad una bambina durante un nostro tour del Kurdistan.

Con cosa giocavamo?

Mio padre, che insegnava scultura al Liceo ( mia mamma ha il pragmatismo della biologa e matematica), riportava la tradizione ricevuta da mio nonno: “se vuoi un giocattolo te lo disegni e te lo fai.” Quindi ci mettevamo sul tavolo della cucina, preparavamo i nostri bozzetti che poi andavamo a realizzare nel piccolo laboratorio dove sono io ora. Seghetto e martello, provavamo a fare quello che ci veniva con i legni a disposizione: la famiglia degli gnomi, un seggiolone, una macchinina. Ed erano proprio belli.”

claudia giochi laboratorio

“Le atmosfere sono rimaste le stesse, non ho voluto cambiare molto del posto nel quale continuo a creare. E’ la mansarda dell’appartamento dove vivo, in un palazzo dei primi del 900 nella strada principale di Catania. E’ il luogo da cui tutto parte.”

“Raccontata così, sembrerebbe una favola, quasi scontata, in realtà, la mia vita ha compiuto giri larghi prima di tornare nel mio piccolo laboratorio. Ho frequentato il liceo artistico, poi, sempre per quella vena di libertà caratteristica della mia famiglia, ho deviato da un percorso lineare e mi sono dedicata ad altre attività. Ho insegnato italiano agli stranieri e deciso di intraprendere una strada dedicata alla cura degli altri. Mi sono iscritta a Scienze Politiche perché volevo fare l’assistente sociale. Mi sono laureata, abilitata, ho fatto un master e iniziato ad occuparmi di terapie con gli animali rivolte ai bambini disabili ( attività che svolgo ancora). E’ una parte della mia esperienza di vita a cui credo molto, anzi vorrei ampliarla alla falegnameria: creo molto meglio quando ho vicino i miei cani, rompono, ma mi rasserenano. Potrebbero costituire uno stimolo e un contributo ulteriore in attività con i bambini disabili.”

claudia e i cani

Il ritorno al legno 

“Ad un certo punto però mi sono accorta che, pur lavorando molto, non riuscivo a pagare le bollette e, essendo orgogliosa, non volevo chiedere aiuto a nessuno. Mi sono trovata anche nella consapevolezza di avere le mani legate per poter interpretare il mio ruolo nel sociale come lo intendevo, spesso mi sentivo manovrata, sfruttata al punto da pormi la classica domanda “Che ci faccio qui?”. A questo dubbio è seguito naturale un altro: “Allora che faccio?”

La risposta era negli strumenti di lavoro che avevo utilizzato fino a quel momento: puzzle e oggetti creati da me che già mi venivano richiesti da altri.

Io so fare questo: creare con il legno.”

claudia giochi vari

“Ho iniziato a vendere le mie creazioni in mercatini che, sorprendentemente, sono andati benissimo. Non era proprio il mio habitat ideale quello dei banchetti, esposti ad ogni agente atmosferico, nei quali, soprattutto, ci si scontrava con clienti non sempre consapevoli del valore della mia arte. Quando non mi guardavano nemmeno, per timore che solo da un saluto seguisse una vendita, mi ritrovavo signore che reputavano bizzarro pagare tanto un trenino che all’Ikea avrebbero preso per la metà. Ricordo che in quella fiera di Natale uscì fuori la mia totale mancanza di spirito commerciale: il mio trenino a quella cliente, che alla fine si era pure convinta a comprarlo, non lo diedi. Non faccio svalutare il mio lavoro a chi non lo apprezza.”

“A questa determinazione mi hanno portato le mie esperienze che non rinnego, nemmeno l’Università. Ogni passaggio è servito per formare la mia personalità e definire sempre meglio i miei obiettivi. Tutto quello che ho studiato in psicologia sociale, tesi sulla comunicazione non verbale compresa, consentono alle mie ricerche sull’applicazione del gioco alla pedagogia, di continuare, più precise e approfondite.

La falegnameria è uno strumento di comunicazione. Ritrovare il modo di comunicare è fondamentale. Fare con le mani, guardarsi negli occhi e collaborare è una necessità, purtroppo non più frutto di un percorso spontaneo tra gli adulti. Per fortuna, tale naturalezza resiste tra i bambini.”

“Non mi arrendo e provo l’impresa in alcuni laboratori rivolti anche agli adulti: sabato per portarli a realizzare un albero ho impiegato tempo e fatica. Ho la mia funzione di mediatore, mi diverto, un po’ sadica, ad osservare le dinamiche che si instaurano durante il lavoro. I conflitti sono inevitabili, per risolverli fornisco un obiettivo concreto da ottenere insieme: l’albero si deve fare. La falegnameria impone anche un metodo di lavoro. Alla fine non solo hanno fatto l’albero, ma non volevano più smettere di comunicare tra di loro.”

“Il mio obiettivo era e rimane, però, insegnare ai bambini. All’inizio mi chiamavano a fare laboratori in luoghi che non rispecchiavano la mia idea di onestà culturale. Lavorare il legno in posti dove trionfava la plastica o dove sapevo quale fosse la concezione prettamente commerciale alla base di ogni azione, mi sembrava un’incoerenza. Rischiavo di finire di nuovo sottopagata e insoddisfatta.”

Falegnameria anche in Ecuador

“Sono partita. Con un visto da missionaria che ho dovuto occultare alla mia famiglia, sono andata in Ecuador, anzi per la precisione nella foresta Amazzonica. Il motivo principale era scrivere una tesi di antropologia, ma in cambio di ospitalità mi occupavo di alcune attività sociali. Giravo con il mio camioncino per fare volontariato. Ovviamente mi sono aperta il mio laboratorio di falegnameria. Nella comunità in cui mi trovavo per assistere i bambini, abbiamo messo su una raccolta di fondi e creato uno spazio da dove uscivano giocattoli di legno. L’idea è sembrata così geniale e avveniristica che mi hanno chiamato dall’Università per assegnarmi una cattedra dedicata all’insegnamento delle leggi della meccanica applicate ai giocattoli. Ho accettato l’incarico, ma prima dovevo rientrare in Italia per il rinnovo del visto.”

Finalmente nelle scuole

“Non appena tornata a Catania, sono arrivate le richieste delle scuole per avviare i laboratori. Era il mio obiettivo, anche se non rinuncio all’idea di alternare periodi in Ecuador dove portare avanti il mio progetto.

Mi piace però stare a contatto con i miei falegnomi negli asili. A loro do gli stessi strumenti che uso con gli adulti.

Noi da piccoli non usavamo certo il martello di plastica!”

“I bambini devono essere lasciati liberi, spiego loro come si devono utilizzare il seghetto, i chiodi, a volte anche il trapano. Sono molto accogliente con genitori e insegnanti ansiose, ma li metto al loro posto se si intromettono con comportamenti apprensivi. I piccoli seguono l’esempio, quindi so che se mi osservano non si fanno male. Non è mai successo infatti, solo una volta uno di loro si è martellato un dito, ma ha trattenuto il dolore e portato a termine il suo giocattolo.

Per lavorare con il legno bisogna fare rumore, usare i chiodi che pungono e godersi la propria libera fantasia.

I bambini sono bassi non scemi.”

“Partiamo dalla base degli albi illustrati, dalle illustrazioni e le parole semplici facciamo uscire i giocattoli. Non voglio però che i bambini si sentano troppo indirizzati dalle immagini, per questo ho cominciato ad utilizzare molto i ritagli. Ho casa piena. Tutto quello che avanza dai miei giocattoli, lo conservo e lo porto ai falegnomi perché ne traggano di nuovi. E’ un giro che non si ferma.

L’esperienza in Ecuador, destrutturandomi ancora, mi ha consegnato questo metodo: ripartire da quello che si trova e mantenere la maggiore naturalezza possibile del legno che deve sempre intravedersi anche attraverso il colore. Usiamo acquerelli, pastelli, gessetti e non acrilici.”

claudia e i ritagli

“I miei laboratori si chiamano Forme in gioco, perché da un pezzo di legno non si può mai sapere cosa possa uscire fuori.

Le ore insieme non bastano mai: i bambini escono felici e soddisfatti con le loro macchine, camioncini o trottole ricavate da quelli che sembravano resti di legno senza prospettiva. Mettere i chiodi, spesso abbondano, è per loro un atto rivoluzionario.  Una gioia creativa che fa partire il passaparola: mi chiamano altre scuole, librerie, associazioni o si muovono le richieste di genitori che mi chiedono di realizzare giochi su misura per i loro figli.”

“Lì parte la mia ricerca personale, mai scontata. Se mi dicono che al loro bambino piace il sole, io non mi limito a creare un astro di legno, ma comincio a chiedermi cosa possa essere legato a questa sua preferenza, cosa gli piacerebbe fare con il sole, che competenze e fantasie attivare: da quelle suggestioni, nasce il giocattolo.”

“Con i bambini abbiamo visto l’immagine di Eloisa, la protagonista di una bella storia: è una matta che non si ferma mai, ci ha ispirato quindi una trottola. Non mancano le Mary Poppins che volano nel mio laboratorio ma anche in questo caso ci metto del mio e lascio, l’ormai troppo presente tata inglese, tra le nuvole di una Londra rigorosamente di legno.”

“Non ho un negozio e non sono molto brava con i social, ma so da dove tutto parte e che può arrivare.

Le mie mani non si fermano, creano, a quello servono: lo scopo più attuale e necessario. La testa si libera, le mani la riportano a terra, trasformando le idee in creatività palpabile.

Come i cavallucci marini che ho appena realizzato: per andare avanti si deve anche tornare indietro, all’arte e la semplicità del passato.”

La traccia volante: Semplificare. Me lo ripete anche mio padre: “dal complicato bisogna arrivare al semplice.” Io sono una perfezionista, ma ho capito dall’Ecuador e dai dolori della vita, che è inutile prendersi troppo sul serio, perdere tempo: è un attimo, tutto può finire o prendere la strada che volevi. Semplifichiamoci: decostruiamo per creare.

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