Aspettando la telefonata che ci avrebbe fatto capire se questo folle incrocio tra labrador e dalmata poteva continuare a condizionare le nostre vite, mi sono interrogata sulla complessità delle relazioni; sull’identità di un cane all’interno di una famiglia; sulla quantità infinita di ricordi che in un tempo, per natura inferiore, è riuscito a seminare nella nostra vita; su quella coda stanca che pure ha roteato; sulla sua volontà fino all’ultimo di unirci e mostrarsi per quello che è.
Era uno dei cuccioli della Valle di Villa Borghese. Lilli lo prese perchè glielo avevano consigliato come terapia a seguito di un suo periodo di salute non facile. Un buffo incrocio tra labrador e dalmata. “Mi hanno detto non crescerà molto”, rassicurò mamma e papà, anche se le zampe tradivano la possibilità di una taglia media. Puck è entrato nella nostre vite poco prima che cambiassero in maniera radicale: quando eravamo ancora tutti e quattro nella casa di Trastevere.
La domenica successiva alla firma dell’affido, ci dovemmo presentare all’incontro con l’addestratore. Ci dissero che il cucciolo aveva già dovuto lottare per la sopravvivenza nei suoi tre mesi di vita: passato dai maltrattamenti per cui aveva piccoli problemi fisici, all’abbandono in strada che ne aveva condizionato il carattere. Schivo, spaventato, bisognoso di attenzioni e di seguire alcune lezioni per imparare a rapportarsi con gli altri.
Devo ammettere mi fece sorridere, confermando l’apertura o estrosità dei miei, l’accoglienza della psicologa che venne a controllare l’ambiente in cui avrebbe vissuto, analizzando ognuno di noi. Lo presi con il necessario sarcasmo, trovandomi a lavorare a contatto con traversie umane ben più gravi, ma mi affezionai a quel diffidente esemplare di cane problematico.
Dopo pochi mesi sono andata a vivere da sola, nel breve periodo di convivenza mi aveva scelto però come cuscino, dedicandomi la sua attenzione solo di notte, posizionato nell’incavo delle gambe. Credo non mi abbia mai perdonato di averlo privato presto di quel rifugio segreto, ma ha mantenuto per me l’affetto che si prova per un amore del passato mai espresso, con la dedica di una rotazione speciale della coda, ogni volta che ci vediamo.
Per qualche anno ha cambiato casa, seguendo i destini degli affitti di Lilli, sentendosi a suo agio sempre e solo in quella d’origine. Nel rione si fece invece conoscere come cane morsicatore, apposizione che gli venne affibbiata dai carabinieri quando strattonò con i denti il polpaccio di una timorosa signora. Incinta di Viola mi ritrovai nella caserma di via Mameli a pregare la comprensione per evitare l’arresto: ce la cavammo con l’obbligo di firma al canile della Muratella.
Certo non era facile entrare in contatto con lui, fu chiaro con la nascita di Francesco quando si decise, per sicurezza, di lasciare Puck da mamma e papà, da cui si diradarono le visite di amici e parenti, terrorizzati dal morso alla caviglia. Non si contano giacche, scarpe e pantaloni danneggiati. “Lo fa perchè ha paura” era il mantra di famiglia che però non è riuscito a superare la fama dei suoi denti. Gian preparava la mano protesa già dal primo gradino dei tre piani di scale, sudando.
Con i nostri bambini è sempre stato premuroso e non ha mai osato rispondere a quelle loro eccessive attenzioni senza limiti, ma guai a corrergli vicino all’improvviso.
Vedendoci prese dai nostri cuccioli, ha scelto definitivamente papà come padrone, costringendolo ad una vita sociale fuori di casa. Nessuno poteva più accedere serenamente dai miei, però nostro padre in pensione, entrò nel giro dei canari di Villa Sciarra, gruppo Facebook compreso.
A Pesaro, Puck, ossessionato dai motorini e dai venditori ambulanti di Trastevere, è rinato. Sgambetta, trascinando papà per il centro ed è il romano tra i cani dei giardini della Rocca. Sia chiaro è sempre quel misterioso, tenero quadrupede che, all’improvviso, può, dalla tenerezza dei suoi occhioni, passare all’azzannata di polpaccio, ma pare meno spaventato, rasserenato dai ritmi lenti e i rumori meno tesi.
Ha solo contribuito a fissare alcune abitudini intoccabili dei miei: alle sette di sera, anche se lo chiede il più affezionato dei nipoti, nonno non è disponibile, deve portare Puck. Se si è fuori per un pranzo o una gita insieme, non si possono superare le quattro ore di lontananza. In casa, invece, si è pregati di non infastidirlo e rispettare i suoi spazi.
Si è ammalato ed è stato curato con un cassetto di prodotti chimici e omeopatici che sfidano la mia mania farmaceutica. Mia madre cucina per lui, seguendo una dieta speciale con verdure, carni bianchi e pasta integrale. Ogni ritorno dalla passeggiata viene pulito, controllato e anche un po’ viziato.
Domenica mattina Puck era fermo davanti la porta, inamovibile, senza reagire all’offerta dell’acqua e dei suoi bastoncini preferiti. Mamma ha chiamato la veterinaria, papà non aveva le forze. Io e Lilli siamo andate a prenderlo. Al mio arrivo, guardandomi dal basso verso l’alto, ha fatto roteare la coda. “Ma se dovessero chiederci se vogliamo…” ho sussurrato a mio padre che mi dava tutti i documenti, le spiegazioni su esami fatti, medicine prese e, per la prima volta nella vita, la sua carta di credito con il codice per pagare la visita. “Non lo so, vediamo, ora non mi sembra il caso…”
Ci siamo caricate quello che è tornato ad essere il nostro cane, il cucciolo di tutta la famiglia, gradino per gradino. “Però sai che mi dispiace anche a me, se…” mi aveva salutato Gian che ancora protende la mano avanti con largo anticipo ogni volta che deve incontrarlo.
Davanti la clinica, Puck si è riattivato, tirando timidamente per non entrare. Non è un caso che finora gran parte delle sue cure e terapie le abbia dovute completare Lilli su indicazione di veterinari feriti. Lo abbiamo tenuto in due, ma non ha fatto troppa resistenza, durante l’ecografia che mostrava la brutta emorragia in corso per via di una massa sulla milza. “Si può operare, non vi garantisco che sia risolutiva e che non si trovino altre metastasi, ma ha ancora una possibilità, un po’ costosa.” La dottoressa è stata onesta, pur ponendoci davanti ad un bivio doloroso.
Lilli ha continuato a tenerlo fermo e tranquillo, mentre io e la veterinaria parlavamo al telefono con papà. “Non posso negargli una possibilità, operiamo!” La nostra precarietà ci avrebbe portato ad una decisione diversa, ma sotto sotto siamo state contente.
Per mettergli la flebo, non si è smentito il vecchio morsicatore di una volta: io mi sono sdraiata sulla sua parte posteriore, Lilli gli ha tenuta ferma l’anteriore. “Mi devo far aiutare da un’ elisabetta” ci ha rassicurato la dottoressa. “E vai riposiamoci, arriva un’aiutante!” Ho fatto ridere Lilli che sapeva che l’elisabetta è lo speciale collare ad imbuto per impedire al cane di girarsi e mordere.
Stremate lo abbiamo lasciato con la flebo attaccata, l’elisabetta al collo, nel box, in attesa dell’intervento. Lilli è entrata nella grossa gabbia con lui, lo ho abbracciato e rassicurato. Io ho infilato un braccio prima di andare via, nel rischio di lasciarcelo incastrato, tanto per cercare di dare una nota comica a queste difficili ore.
In macchina, ricoperte di peli, sudate, abbiamo ridacchiato isteriche. Alle cinque l’intervento, alle otto ci avrebbero fatto sapere.
“Si salverà Puck mamma?” Hanno chiesto Viola e Luca. “Ma sì, è forte, comunque combatte.”
Aspettando la telefonata che ci avrebbe fatto capire se questo folle incrocio tra labrador e dalmata poteva continuare a condizionare le nostre vite, mi sono interrogata sulla complessità delle relazioni, sull’identità di un cane all’interno di una famiglia, sulla quantità infinita di ricordi che in un tempo per natura inferiore, è riuscito a seminare nella nostra vita, su quella coda stanca che pure ha roteato, sulla sua volontà, fino all’ultimo di unirci e mostrarsi per quello che è.
Sono passate 48 ore dall’intervento: Puck ce l’ha fatta!
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