Siya Kolisi, quando lo sport diventa storia

Da quando sono vivo, non ho mai visto così il Sudafrica. Il coach ci ha detto che non stavamo più giocando solo per noi stessi, ma anche per tutte le persone a casa. Grazie a tutti per il sostegno, alle persone nei pub, nelle fattorie, ai senzatetto e alle persone che vivono nelle aree più rurali. Grazie davvero. Amiamo il Sudafrica e possiamo conquistare qualunque cosa se lavoriamo insieme come un’unica entità.” Siya Kolisi, capitano della nazionale sudafricana di rugby, vincitrice della Coppa del Mondo, il 2 novembre del 2019.

siya kolisi.jpgLo sport può diventare storia. Quando accade, riconcilia con i valori che dovrebbero sempre essere alla base delle sfide, agite, rispettando le regole e l’avversario. In questo fine settimana di polemiche per le ennesime dimostrazioni di ignoranza dagli spalti degli stadi italiani, la dimostrazione, l’esempio da mantenere e raccontare, si imprime su un campo di rugby: l’International Stadium di Yokohama in Giappone. Qui il Sud Africa ha vinto la Coppa del mondo contro l’Inghilterra. Quanto accaduto, prima e dopo questo trionfo, lascia tracce di storia, di fratellanza e di futuro.

siya la squadra.jpgSi parte dalla foto del capitano Siya Kolisi, fiero, abbracciato dai suoi compagni intorno alla coppa. Si ferma sulle sue parole, semplici e fondamentali:

“Da quando sono vivo, non ho mai visto così il Sudafrica. Il coach ci ha detto che non stavamo più giocando solo per noi stessi, ma anche per tutte le persone a casa. Grazie a tutti per il sostegno, alle persone nei pub, nelle fattorie, ai senzatetto e alle persone che vivono nelle aree più rurali. Grazie davvero. Amiamo il Sudafrica e possiamo conquistare qualunque cosa se lavoriamo insieme come un’unica entità.”

Siya Kolisi è il primo capitano nero nella storia del Sudafrica. Gioca con il numero 6 come Francois Pienaar che alzò al cielo la Coppa del mondo nel 1995. Allora il paese usciva dal periodo buio dell’apartheid, era il Sud Africa del presidente Nelson Mandela. Per unire il popolo, ancora diviso nell’odio tra bianchi e neri, Madiba utilizzò proprio la squadra degli Springboks. Rischiò, perchè rappresentava il simbolo dell’orgoglio bianco, per questo era detestata dai neri. Il rapporto tra Mandela e il capitano Pienaar a cui il presidente spiegò l’importanza della competizione, soprattutto in vista della Coppa del mondo del 1995, ospitata proprio dal Sudafrica, rafforzò il morale degli Springboks (reduci da un lungo periodo di sconfitte) e li portò ad una insperata vittoria, in finale contro i temibili All Blacks. Il successo della nazionale divenne simbolo del riavvicinamento della popolazione nera alla popolazione bianca e del procedere del processo di integrazione.

siya mandela.jpg

La storia è stata raccontata nel film Invictus di Clint Eastwood. Meriterebbe una sceneggiatura anche la vicenda personale e sportiva di Siya Kolisi, appena dodicenne, quando nel 2007 il Sudafrica vinse un’altra Coppa del mondo. Proprio a questa età la sua vita iniziò a cambiare: nato a Zwide, un sobborgo/ghetto di Port Elizabeth, quell’anno venne notato da uno scout e vinse una borsa di studio per la Grey High School di Port Elizabeth. Qui iniziò giocare a rugby: a 16 anni entrò nelle giovanili di una squadra locale. Nel 2010 giocò nel Western Province, la squadra più titolata del Sud Africa, l’anno successivo debuttò con gli Springboks under 20 nel Mondiale, ospitato dall’Italia. Nel 2013 ha avuto finalmente l’opportunità di giocare con la squadra principale del Sud Africa, debuttando nella sfida contro la Scozia. Per i successivi due anni non è stato più richiamato, fino a quando è stato scelto nella selezione dei 30 giocatori per la Coppa del mondo 2015, dove il Sud Africa si è posizionato al terzo posto. Da quel momento Siya Kolisi è diventato una colonna fondamentale, tanto da diventare il capitano degli Springboks, accompagnato da un gruppo di ben 9 giocatori di colore in squadra.

Sulle cosiddette “quote nere”, però, il capitano si è espresso chiaramente, dimostrando, ancora una volta, come dallo sport possano arrivare messaggi necessari per la società.

 “Non credo che Mandela le avrebbe sostenute, anche se ovviamente non l’ho conosciuto per dirlo. Su queste cose non si possono mettere numeri predeterminati. Se si vuole parlare di cambiamento, bisogna partire dalla base: lì il talento esiste e va alimentato. Io non voglio pensare di essere stato scelto per il colore della mia pelle: questo non gioverebbe nè a me nè ai miei compagni. Dei tentativi si potrebbero fare magari in Currie Cup, ma più il livello si alza più la cosa diventa difficile. Qui in Sudafrica vogliamo cambiamenti e risultati, tutto insieme, ma non è facile“.

Non ha conosciuto Madiba, Siya, ma le sue parole sembrano evocare quelle che Nelson Mandela consegnò al capitano Pienaar prima della finale del 1995. Era un estratto del discorso del presidente americano  Theodore Roosevelt, tenuto nel 1910, in occasione di una visita ufficiale all’Università Sorbona a Parigi:

“Non è il critico che conta, né l’individuo che indica come l’uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un’azione.  L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; a colui che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; ma che combatte davvero per raggiungere un obiettivo; che conosce davvero l’entusiasmo, la dedizione, e si spende per una giusta causa; che, nella migliore delle ipotesi, conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e, nella peggiore, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Per questo il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono, né la vittoria, né la sconfitta.”

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