“Ognuno interpreta la nostra professione come vuole, ma l’unico obiettivo deve rimanere: educare i ragazzi attraverso la cultura, intesa come mezzo, non come fine. Educare alla bellezza, alla lettura, all’ascolto, alla riflessione. Educazione che letteralmente vuol dire tirare fuori da.”
IV Ginnasio, Liceo Classico Luciano Manara: dopo i miei cugini e mia sorella, anche io inizio le superiori nella scuola monteverdina. Non ricordo con chi mi sia messa al banco per superare la timidezza, anzi il terrore iniziale, non dimentico, però, chi avessi davanti a me: due ragazzi, o meglio, come li chiamavamo ancora in quel periodo, due maschi, Walter e Francesco. Non i più bravi, né i più tranquilli della classe, ma coloro con i quali si poteva condividere la battuta, il sorriso e l’ansia. Walter in particolare diventerà l’amico delle lunghe telefonate pomeridiane e serali, quelle che ancora si facevano con la cornetta, nascosti in un angolo del corridoio, tenendo occupate le comunicazioni di tutta la famiglia. Ci ha legati l’ironia che ci portava ad essere anche crudeli con il resto dei compagni e con le insegnanti. Vittima delle mie insicurezze e di una prof di filosofia ottusa, al terzo anno, ho cambiato scuola. Sono fuggita nello storico Liceo Virgilio, trovando nuove strade e nuovi amici, purtroppo perdendo il contatto continuo con Walter. Abbiamo avuto, però, la fortuna di coltivare parallelamente il rapporto con il classico amico capace di unire generazioni e distanze geografiche, per cui ho saputo che la passione per la letteratura di Walter è continuata nella volontà di diffonderne la bellezza come professore. Un insegnante che, come ammette ogni volta glielo si chieda: ama smodatamente la sua professione. Di un lavoro che ha il potere di lasciare tasselli nell’anima di chi incontra, mi piace scoprire dal suo racconto.
La traccia: le parole per insegnare
“A me la scuola è sempre piaciuta tantissimo, non ho mai avuto dubbi su cosa volessi fare, sin dalla elementari. Io volevo continuare a rimanere a scuola, perché mi ci trovavo bene. Alle Medie preferivo la matematica, al Liceo è scoppiata la passione per le lettere che si è poi definitivamente unita a quella dell’insegnamento. Non ho avuto modelli di riferimento particolarmente fulgidi tra i miei insegnanti. Ora che ho triplicato la mia esperienza di professore rispetto a quella da studente, posso confermarlo e attribuire la responsabilità della mia scelta all’amore per i classici e la letteratura. Sia chiaro: andavo bene, ma non posso definirmi un filologo liceale.”
“Questa determinazione mi ha consentito di passare indenne la fase dei dubbi per la scelta universitaria: sono andato diretto a Lettere classiche. Non ho trovato nemmeno in questo contesto professori da prendere come modello, però ricordo una lezione di grammatica greca tenuta dal professor Albio Cesare Cassio ( giuro esiste, non è un personaggio di Topolino): stratosferica.
Posso affermare, con la sicurezza della mia prima intervista che: il denominatore comune che mi ha portato a diventare un insegnante è la parola, strumento fondamentale che io amo, sia leggere, sia diffondere.”
La sorpresa di Ludovica
“Sono stato fortunato perché, appena uscito dall’Università, ho avuto subito una supplenza di italiano, latino e greco in un istituto dei Salesiani, Villa Sora a Frascati. Il ricordo della prima lezione è ben impresso. Aspettavo di entrare in aula, passeggiando nel corridoio lunghissimo: alla fine c’era una ragazzina che mi ha fissato, scappando poi in classe al grido “è arrivato!”.”
“Sono rimasto dai Salesiani per altri dieci anni, in un’altra scuola: il Pio XI nella zona Appio Tuscolano. Ho tantissimi ricordi di quel periodo, ma uno me lo porto dentro con particolare affetto. Da noi mandavamo quasi sempre i ragazzi che venivano considerati gli “scarti” da professori di altri istituti, oppure arrivavano gli studenti che avevano vissuto situazioni di difficoltà ( un po’ come una mia amica del Ginnasio…). In realtà si trattava solo di animi più fragili che da noi riscoprivano la voglia di venire a scuola, di essere ascoltati. Tra loro ricordo Ludovica, in fuga da un liceo classico. Ero commissario interno all’esame di stato. Quando lei ha finito, io mi sono alzato e uscito a sgranchirmi le gambe. Rientrato, ho trovato Ludovica ancora in classe. Non capivo, finché i miei colleghi mi hanno sussurrato: “guarda che sta aspettando solo te.” Mi ha dato un abbraccio fortissimo. Io, felice, ma quasi imbarazzato ho finto di non capire “ma l’esame l’hai fatto te.”
Aveva trovato la sua dimensione e voleva comunicarmi la sua gratitudine.“
“E’ un riconoscimento che bisogna sapersi meritare, conquistarsi giorno per giorno, senza dare mai la propria posizione rispetto ai ragazzi come scontata. Io sono ossessivo compulsivo rispetto alla mia materia: uso ogni momento per approfondire, leggere e soprattutto capire come trasferire quello che apprendo, anche da una musica per strada, ai miei ragazzi. Mettere i voti è noioso, è un falso mito.
La scuola è condivisione e trasmissione delle proprie conoscenze.“
Il misuratore possibile
Una consapevolezza che è maturata anche grazie a quanto mi disse Antonio Martina, anziano prof di letteratura greca. Ad un esame, mentre battagliavo con una frase di Aristotele, mi ha corretto con dolcezza e fermato, ammonendomi: “Si ricordi che tutto quello studia, lo studia per gli altri.”
“Ci penso mentre cammino o viaggio: se vedo qualcosa che mi colpisce, rifletto, in maniera forse infervorata, sul modo giusto per raccontarlo in classe.”
“Se proprio si deve trovare un misuratore della scuola non si deve pensare ai voti, ma al benessere immediato degli studenti. Quello che diventerà ognuno di loro; quanto delle tracce del tuo insegnamento rimarranno; si può vedere solo nel tempo, non si può sapere subito o nel breve periodo. Porto gli studenti al cinema, al teatro, a raccogliere fondi per progetti di beneficenza, ma non è che alla fine dell’anno chiedo loro: “cosa ricordi del film?” Noi siamo musica, cinema, letteratura che tracciano un segno per il futuro, ma per lasciarlo c’è bisogno che si sia nelle condizioni migliori nel momento in cui viene impresso.”
Ritorno al passato
“Dal futuro, a volte, invece, si torna al passato. Mi è successo quando ho dovuto fare una supplenza nel mio liceo: il Manara. Ripetevo in maniera inquietante a tutti i colleghi che io in quelle classi ero stato studente. Finchè un giorno è arrivata l’intermittenza proustiana: in un banco ho riconosciuto la scritta del mio compagno Mauro dedicata ad un altro amico: “B. polipetto”. Ho interrotto la lezione per spiegare ai ragazzi cosa mi stava capitando. Avrei potuto continuare e fare finta di niente, ma l’emozione era così intensa che è stato giusto condividerla. Hanno continuato a guardarmi strano in aula professori perché avevo ulteriore materiale per ricordare che “stavo insegnando proprio nel liceo in cui ero stato studente!”
“L’anno successivo, nel 2015, sono diventato di ruolo e nel 2016 ho avuto l’incarico all’Istituto Gaetano De Sanctis sulla via Cassia: 5 sedi, 1800 studenti. Una città scolastica che prende ragazzi da Bracciano a Ponte Milvio, passando per Formello, un ampio spaccato sociale: dai figli dei domestici a quelli degli ambasciatori.
Dopo anni di Roma Sud mi aspettavo che il passaggio a Roma nord significasse trovarmi tra laziali, tendenzialmente di destra. Tutto sbagliato. Con i ragazzi non esistono classificazioni territoriali, ma sono contento di avere avuto la conferma definitiva dell’importanza dell’onestà reciproca nel presentarsi e nello stare insieme. “
“Perché la scuola è politica. Senza paura del valore profondo di questa parola che significa capacità di interessarsi, di approfondire, di applicare quanto si apprende al proprio contesto. La neutralità è un falso valore proprio di chi ha cattiva coscienza, bisogna essere onesti culturalmente: i ragazzi devono saper pesare cosa dico. Loro devono restituirmi pari franchezza.
In questo periodo sto spiegando la storia ateniese dal 430 al 404 a. C, ed è un manuale di scienza politica.
Come il popolo ateniese, “ingannato da una falsa spezie di beni”, come ebbe a dire Machiavelli, e facilmente da “grandi speranze e gagliarde promesse”, abbia favorito la sua rovina, andando incontro, in Sicilia, alla sua totale distruzione; e di come questo sia avvenuto perché un politico, Alcibiade, con la sola parola, abbia saputo smuovere e infiammare quell’insopprimibile istinto, profondamente insito del suo popolo, che Tucidide, magnificamente, definisce “eros del dominio.”.
Puntare all’essenza
“Io, però rifuggo l’approccio piacionesco ai classici che li riporta all’attualità: punto all’essenzialità e semmai alle differenze.
Socrate quando pensa a Pericle, per cui ha stima, chiede se sia giusto che il politico insegua il consenso e non il giusto. Le parole di Socrate su Pericle sono un dato, non è importante che gli studenti applichino il concetto all’attualità, ma che sappiano la chiave generale: se è giusto o meno che il politico segua solo il consenso.”
“Poi odio le giaculatorie sui tempi moderni, anche se, obiettivamente, devo ammettere che non trovo fervori politici in classe. Facciamo belle discussioni sui migranti o sulle discriminazioni sessuali, ma poi al momento di manifestare concretamente il proprio dissenso sembra che si muovano soprattutto imitando i fratelli o i genitori.”
“Ho la fortuna di insegnare in un istituto nel quale la dirigente, Maria Laura Morisani, accoglie i progetti con entusiasmo, finora non ha mai detto di no ad idee che cercano di coinvolgere gli studenti. Ogni anno faccio studiare la tragedia che poi sarà rappresentata al Teatro greco di Siracusa dove porto la classe a maggio. Abbiamo organizzato un seminario nel quale gli studenti erano relatori e i professori universitari assistevano. Altrove le porte spesso sono chiuse: c’è modo e modo di essere dirigente dello stato.
Potrei rimanere sempre qui: quando finisce l’anno scolastico, nel dubbio prevale la voglia di portare avanti quella classe. Una collega che è andata in pensione da poco, mi ha detto che così è rimasta fregata per 30 anni.”
“Ognuno interpreta la nostra professione come vuole, ma l’unico obiettivo deve rimanere: educare i ragazzi attraverso la cultura, intesa come mezzo, non come fine. Educare alla bellezza, alla lettura, all’ascolto, alla riflessione. Educazione che letteralmente vuol dire tirare fuori da. “
“Non c’è però educazione senza relazione. Oppure basterebbe mettere su delle videocassette, pagare delle guardie giurate per far stare tutti zitti e limitarsi a fare ascoltare contenuti in maniera asettica. Bisogna stare nello stesso posto.
Nel mio caso ho lo strumento prezioso della letteratura, del mondo classico, come mezzo, ma non mi importa se poi lo studente non ricorderà tutto, perché qualcosa sarà rimasto. Non considero il 100 un successo superiore al 60, ho avuto soddisfazioni da risultati diversi.”
“Silvio Orlando alla fine del film La Scuola, dice di uno studente: “questo andrebbe bene ovunque.”
Don Bosco, invece affermava: “L’ottimo è nemico del bene.” Bisogna sapersi accontentare che significa aprirsi al loro mondo, scendere ai loro bisogni.”
La Traccia volante: Accontentarsi. E’ una parola che gode di cattiva stampa, da riscattare. Nel III canto del Paradiso, Dante incontra Piccarda e le chiede se, essendo più lontana da Dio, sia meno felice. Piccarda risponde che nel Paradiso sono tutti “pieni”. Accontentarsi significa aprirsi alla pienezza di ciascuno studente. e questo me lo hanno insegnato, nella pratica, i salesiani che rimangono per me un’avanguardia educativa.
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