Nelle 48 ore che siamo stati a Napoli, nel mondo è successo di tutto: manifestazioni, polemiche, stragi, cataclismi ed io ero senza connessione. Come racchiusa nella magia del Vesuvio, il mio telefono ha smesso di funzionare: sono stata costretta a vivere, a interpretare i gesti e gli sguardi delle persone in uno dei teatri umani più fervidi.
Sia chiaro non sono una fautrice del ritorno indietro, dell’azzeramento tecnologico, anzi un po’ di ansia da assenza di soneria e squilli di notifica, l’ho anche avvertita, ma è stato più forte il rumore delle voci, dei richiami, dei suoni delle strade e dei vicoli che, se non li senti, vieni travolto, la meta sfugge, ma va bene lo stesso.
Abbiamo deciso di far conoscere ai bambini una città che è una realtà diversa, fuori dai luoghi comuni che poi si rivelano con naturalezza: Napoli è un modo di vivere, di accogliere, di guardare e anche di sbagliare. Dovevamo scegliere tra qualche giornata in montagna affinchè iniziassero a sciare e l’insegnamento di una lingua e di una prospettiva nuova sulle cose. Lo ammetto, Gian è un santo, ed io tendo a prevaricare, ma la decisione finale ha premiato, meno la sua battaglia contro il colesterolo.
Venerdì mattina, mentre migliaia di ragazzi marciavano per chiedere rispetto per sé e per l’ambiente di tutti, noi prendevamo l’avveniristica metropolitana partenopea nell’entusiasmo di Viola e Luca. Con la funicolare, invece, abbiamo raggiunto, il silenzio surreale di Castel Sant’Elmo che domina con il vento, sia il mare, sia il vulcano.
Ognuno di noi quattro è sembrato avere la sua finestra, con o senza grate, con e senza rischio di sporgersi, da cui ammirare la spettacolo di una vita intensa che si snoda tra natura e umanità senza capire dove finisca l’acqua e inizino le cupole delle chiese, le piazze, le navi che partono. Napoli concentra tutto e non esclude nessuno.
Lo si percepisce mentre si scende dall’elegante collina del Vomero e pare di entrare nelle case con gli scuri aperti dove c’è sempre qualcuno che non si distrae e guarda fuori, per vedere non solo per fumare una sigaretta.
Ci si può perdere, il rischio è reale, quando dalla fermata Montesanto si dipanano le offerte visive, olfattive, uditive di Spaccanapoli. Ci si confonde tra l’acquisto di un paio di scarpe “che venite con mè signora, il numero lo troviamo” e il sapore di un cuopp di fritti, miracolosamente digerito, lasciando spazio ad altri desideri del palato. E’ la tempesta di battute che vorresti scrivere in continuazione perché ognuna merita, lasciata così nell’aria, come fosse normale rispondere alla richiesta di un caffè: “ lu vulite amaro o zuccherato e che ce ne fotte della dieta”, una sentenza e una complicità. Il profumo intenso è quello dell’impasto della frolla che si mescola con l’olio caldo delle pizze fritte, rimanendo aroma senza mai diventare olezzo.
A piazza San Domenico abbiamo incontrato i ragazzi della manifestazione, reduci allegri di una mattina di impegno, con i volti rigati di verde e la voglia di non far finire l’entusiasmo. Dietro di loro, la folla di turisti in un incontro continuo di storie e di destini che qui è palese, palpabile sotto allo sguardo di un Eduardo De Filippo che aveva già scritto e interpretato passato, presente e futuro. Quel suo cuore che batteva tutte le sere prima di andare in scena e che, sapeva, avrebbe continuato a battere anche quando si fosse fermato.
San Gregorio Armeno impone il passaggio di memoria teatrale. “Mamma, ma chi era quel signore la sopra e chi è Toto’?”. Confusi tra migliaia di pulcinella in varie materiali e dimensioni, i miti reali di questi vicoli, mostrano il volto e richiamano il racconto. Siamo forse l’ultima generazione cresciuta, sapendo rispondere alla domanda “Te piace ‘o presepe?”, ancora pronta a singhiozzare dalle risate davanti alla scrittura di una lettera da parte di due maestri indiscussi della comicità “punto, due punti, punto e virgola…”. A via dei tribunali arriva anche questa coscienza e la necessità di rimediare. “Vi devo far vedere qualche film e alcune commedie!”
Il fiume scorre ed anche i bambini imparano presto che ci si può fermare poco, allora giù verso i decumani, tra i balconi di De Sica e i murales di artisti contemporanei. Si arriva sempre al mare, dove la signora con le buste e il tuppo grida al miracolo, controllando i tempi di arrivo dei mezzi sul telefono: “il 140 non passa mai due volte di seguito, portate buono.”
Nel vagare senza una meta precisa, ci siamo accorti di non aver fatto selfie, ma di esserci scattati tante foto, mai in posa, per non dimenticare la prima pizza a portafoglio di Luca sbrodolata senza decoro sulla giacca; Viola che si fa benedire dalla statuina del papa e da quella di Maradona; la reazione estatica al morso della mia desiderata sfogliatella nell’androne di un palazzo antico; Gian che cerca panorami sul lungomare.
Ci sono stati eventi, stragi e cataclismi e noi eravamo rifugiati nel centro di un vortice che blocca tutti e li fa guardare in faccia. A sentire l’odore del pane caldo che abbraccia farina e acqua speciali.
Sabato abbiamo percorso tutta via Caracciolo, ci siamo arrampicati per Chiaia e poi abbiamo respirato Piazza del Plebiscito. Signore eleganti con le buste firmate, artisti di strada, bambini che giocano a pallone, ragazzi irlandesi che suonano la tromba. Le lingue, i dialetti, le note sembrano uno stesso concerto.
Nella Napoli sotterranea, ricavata dalla determinazione di ricercatori e speleologi, abbiamo trovato il senso di quel sopra che è anche nelle viscere della città. La storia di chi ha saputo, tra i primi, inventarsi i pozzi e farli diventare leggenda; di chi durante la guerra non si perdeva il gusto della realtà, disegnando campi di calcio e caricature sui muri; di chi, ancora oggi, crede nella cultura come strumento di avvenire per un territorio.
Risalendo in superficie, i giovani dell’associazione LAES danno una poesia, scritta da Domenico Blasi, nipote di una delle donne che si è rifugiata nei sotterranei di Napoli, durante i bombardamenti. Le parole, che nel dialetto trovano la metrica senza nemmeno cercarla, battono sul foglietto e nel cuore mentre scorrono le immagini della tragedia nella Moschea, le alluvioni in Mozambico e Malawi, gli scontri a Parigi, gli attacchi dissennati ai giovani. “ ’acattiveria nostra, si nun ce stamm’accorto ce po purtà ‘int’’a nu fuosso ca è difficile a asci fore. Scavanno assieme: miglioramme l’umanità;”
C’era il sole ieri sulla collina di Posillipo da cui abbiamo salutato Napoli: tra le foglie di agave, la luce sembrava filtrare sulle barche a vela in quell’orizzonte delimitato dal Vesuvio.
La realtà sembra poca cosa quando la spiegano i sentimenti.
I bambini potevano imparare a stare sugli sci, hanno conosciuto Eduardo, Totò e la prospettiva che da una battuta svela una profondità.
“E’ domenica signora bella, il caffè si fa senza zucchero, ma vi scaldo la frolla!”
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