“Khobeib era un ragazzo buono che voleva arrivare in Italia per migliorare la sua vita, amava la sua famiglia e gli altri. Per un breve periodo ha sentito di aver ritrovato quell’amore, mentre cucinava per tutti e sorrideva, con la speranza di avercela quasi fatta.”
Il 3 ottobre del 2013 di 6 anni fa, a mezzo miglio dalla spiaggia dei Conigli dell’isola di Lampedusa, 368 persone, in maggioranza provenienti dall’Eritrea, morirono. Affogarono nelle acque di quel mare che avevano scelto come via per salvarsi e ricominciare a vivere. Per non dimenticare questa strage, è stata istituita la giornata europea dell’accoglienza e della memoria per le vittime dell’immigrazione.
Oggi voglio raccontare la storia di una di loro, morto dieci giorni fa, non nel mare, ma sulla terraferma di un’Europa che, oltre a commemorare, dovrebbe utilizzare tutte le risorse per aiutare chi chiede solo il diritto ad avere una dignità umana ed una speranza. Khobeib aveva 32 anni, l’ultimo impegnato con ogni forza per provare ad arrivare in Italia, dopo aver tentato di attraversare la rotta balcanica, rimettendoci l’uso dei suoi piedi, fino alla cancrena che lo ha ucciso, il 21 settembre, in un ospedale di Bihac in Bosnia. Il racconto degli ultimi giorni lo si deve a Nawal Soufi, attivista italo marocchina, dal 2013 angelo dei migranti di mare e di terra, per cui mette a disposizione le sue risorse di testa e di cuore. Nawal ha regalato a Khobeib un sorriso, il calore di una famiglia, l’ultimo saluto di sua madre, ora la memoria e il tentativo di garantirgli giustizia.
Khobeib era partito dalla Tunisia all’inizio del 2019, dalla Turchia aveva proseguito fino alla Croazia. Qui è stato respinto in Bosnia dove si è dovuto fermare. Il dolore sempre più pungente per le ferite causate ai piedi e alle gambe, unito alla frustrazione di non poter continuare la sua strada, lo avevano portato al silenzio. Chiuso in sè stesso, in uno dei campi profughi di Bihac, ripeteva solamente che voleva essere curato in Italia. Avrebbero potuto chiamare sua madre o un tutore per chiedere l’autorizzazione ad operarlo, ma non è stato fatto. La sua vita si stava consumando finchè non ha incontrato Nawal. Dei ragazzi algerini le hanno raccontato le condizioni di questo ragazzo silenzioso, di come avesse già perso metà di uno dei piedi e di quanto fosse difficile comunicare con lui. Non c’era bisogno di una lingua particolare, ma di una comprensione diversa che passa attraverso la conoscenza di chi si ha di fronte. Nawal ha capito la sofferenza di Khobeib: ha prenotato un ostello per lui e, quando ha visto che non era quella la soluzione, ha preso in affitto una casa.
28 euro costa un giorno di esistenza normale in un contesto dignitoso. Qui insieme ad altre persone, in quella che è diventata una famiglia di rapporti e condivisioni, Khobeib ha ricominciato a parlare: ha cucinato per tutti. In una vita che stava ritornando ad essere tale, ha chiesto nuovamente di essere curato. All’inizio di settembre ha potuto riabbracciare sua mamma, un dono in ritardo, ma speciale per il suo compleanno, il 15 agosto, fatto da Nawal che si è anche messa in contatto, attraverso la Croce Rossa internazionale e l’Ambasciata italiana, con alcuni ospedali per chiedere la disponibilità all’intervento. In tre hanno risposto positivamente, due chirurghi pronti subito a fare l’operazione. Il 23 settembre si doveva procedere con gli ultimi incartamenti per le autorizzazioni e il visto. Da quattro giorni però non si riuscivano più ad avere notizie di Khobeib: un volontario ha fatto sapere che lo avevano portato in ospedale a Bihac. I motivi di questa fretta improvvisa e quanto è accaduto dopo sono oggetto di una inchiesta: la famiglia si è affidata ad un legale, per cui non è questo il contesto di aggiungere supposizioni.
La certezza, unica e maledettamente incontrovertibile è che Khobeib, il 21 settembre, a 32 anni, è morto nel reparto di chirurgia dell’ospedale di Bihac. La sorte ha voluto che accadesse proprio il giorno in cui Nawal compiva i suoi 32 anni. A lei, oltre alla tristezza, è toccato il compito più dura. Era riuscita a far ritrovare il figlio con sua madre, ha dovuto chiamare quella stessa donna per darle la notizia più dolorosa che si possa ricevere.
“Buon viaggio Khobeib adesso sei libero di andare!” Ha scritto, due giorni fa, quando finalmente si è riusciti a far arrivare il corpo di Khobeib in Tunisia. “Abbiamo finito tutto l’iter burocratico per riportarti a casa e adesso potrai riposare in Pace. Vola fratello mio, vola. Gli autobus, i taxi e i treni non sono per te. Tu adesso puoi volare.”
Ogni giorno, lungo la rotta balcanica, ufficialmente chiusa nel 2016 dopo la firma di un discutibile accordo tra Unione Europea e Turchia, migliaia di donne, uomini e bambini sfidano la morte per cercare di arrivare in Europa. Patiscono la fame, il freddo, subiscono respingimenti duri e violenti messi in atto da poliziotti che si fatica a definire tali. Sono oltre 140.000 le persone rimaste intrappolate in Grecia e oltre 7.000 bloccate lungo i centri di transito e campi per richiedenti asilo che sono stati allestiti tra Macedonia e Serbia. Nella primavera del 2018, vista la chiusura del passaggio a nord, tra la Serbia, la Croazia e l’Ungheria, centinaia di migranti hanno iniziato a spostarsi verso la Bosnia Erzegovina, dirigendosi verso l’ampio confine occidentale con la Croazia, principalmente nella città di Bihać e Velika Kladuša, mentre poche centinaia restano nei centri per l’asilo aperti tra Sarajevo e Mostar. Secondo i dati ufficiali forniti dalle Nazioni Unite, attraverso l’ultimo report pubblicato in gennaio, il numero di migranti e rifugiati arrivati in Bosnia ed Erzegovina al 31 gennaio 2019 è di 5.400, gran parte dei quali nel cantone di Bihać. Qui sono stati allestiti ufficialmente 4 campi per l’accoglienza di migranti e rifugiati, dove si dichiara che, a febbraio 2019, siano presenti 2.219 persone.
Questi sono i numeri, spesso inferiori rispetto ai quelli reali di una vergogna che, come giustamente ha dichiarato Nawal, definisce un’Europa in cancrena. Una malattia che, nell’indifferenza, le sta divorando l’anima. Un male che non si cura con una giornata della memoria, perchè il numero dei morti aumenta quotidianamente e non basterebbero mesi a commemorarli tutti.
Khobeib, uno di loro, era un ragazzo buono che voleva arrivare in Italia per migliorare la sua vita, amava la sua famiglia e gli altri. Per un breve periodo ha sentito di aver ritrovato quell’amore, mentre cucinava per tutti e sorrideva, con la speranza di avercela quasi fatta.
Nawal ha chiesto di scrivere o disegnare un ricordo per la famiglia perchè il sacrificio di Khobeib lasci traccia.
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