“Questo sarà l’addio, ma non pensiamoci. Con una stretta di mano, da buoni amici sinceri, ci sorridiamo per dirci: Arrivederci.” Come vorrei che la cantasse, una di queste sere, Tiziano Ferro, ricordando quanto Umberto Bindi abbia regalato a tutti coloro che si emozionano nei silenzi pieni, sospesi tra i tasti di un pianoforte.
“Senti cosa ho trovato, però non ti mettere a piangere!” Ieri sera mamma, in piena atmosfera sanremese 1980, ha messo il telefono vicino al registratore, un cimelio trovato al mercatino dell’antiquariato, e fatto girare una cassetta.
“Indovina?”.
Mi sono bastate poche note per riconoscere quel pianoforte. Concitata per la preparazione della cena, le ho risposto: “Aspetta, non fermarla: è Umberto!”
Nella cucina di una città lontana ha risuonato l’eco del pianerottolo di quando avevo circa 8 anni, al quinto piano del palazzone di Via Francesco Catel, 60, dove, da quando arrivarono i nostri vicini speciali, per quasi dieci anni le porte si chiudevano solo di notte. I traslocatori portarono prima il piano a coda, che già destò la curiosità dei condomini. “E’ un cantante, era famoso negli anni 60 “informava a tutti il mitico portiere Biagio.
A suscitare però l’interesse mio e di Anne, furono più i 4 shih tzu e il pappagallo. I terrazzi confinanti resero costante, per qualche settimana, la nostra attività di spionaggio dal piccolo buco nella vetrata di divisione. Umberto amava le piante tra cui correvano felici e festanti Napoleone, Camilla, Minou, Lancillotto, sorvegliati da Romeo. E noi, nascoste a guardare, fino a quando, grazie ai fiori adorati da mamma, non nacque la prima conversazione tra vicini a rivelare sensibilità affini che non si sarebbero più separate. Mamma, Umberto e Massimo divennero quasi tre fratelli, io ovviamente ero gelosissima e spesso lanciavo battute, segnate dalla crudeltà dei miei anni.
Intanto la casa si riempiva di suoni, di voci, risate e abbaiate.
“Lo vorresti un cucciolo?” chiese Umberto un giorno, sapendo che avrei organizzato sit in e scioperi della fame per convincere papà. Mi portò Tao, appena nato da Camilla, timoroso e un po’ instabile, tanto da aver morso praticamente chiunque, adulto o bambino abbia varcato il nostro ingresso, ma diventato ulteriore suggello della nostra famiglia allargata.
Ogni giorno, chi si fosse trovato all’ora di pranzo o cena, al nostro piano, poteva assistere agli scambi di cibo: la sacher di Umberto era strepitosa, compensava con le minestre di verdure e cereali con cui Massimo, fedele spalla, cercava di riportare tutti a regime. Mamma rispondeva con cotolette e spezzatino. La mattina, se non si andava a scuola c’era un spaccio di pizza bianca: Umberto ce la portava poi veniva a mangiarla di nascosto. C’erano poi i pomeriggi, soprattutto quelli di inverno, in cui invitava mamma ad andare a sentire le ultime melodie composte. Io e Anne non conoscevamo i suoi pezzi storici, confesso quindi che non avevo capito subito l’eccezionale fortuna di poter ammirare l’autore del Nostro Concerto mentre ci donava rari e preziosi momenti della sua creatività.
Mentre mamma si commuoveva, io fissavo le sue dita, non proprio affusolate, pigiare sui tasti: mi colpiva percepire quegli attimi di silenzio tra l’uno e l’altro e la trasformazione, in quelle arie sospese, dello sguardo, della bocca, delle espressioni di Umberto. Irriverente, iniziai anche a farne l’imitazione che per fortuna lo faceva molto ridere. La stessa reazione che aveva quando sentiva che gridavo il ritornello, poi chiamarlo così offende l’ampiezza della musica e delle parole che lo caratterizzavano, del Mio Mondo, allargando le “o” finali, come mi sembrava facesse lui.
“Dovresti fare pezzi più moderni!” sì, a 10 anni, ho avuto l’ardire arrogante di permettermi di ripetere questo consiglio a chi ha lasciato al mondo capolavori come La Musica è finita o Arrivederci, una delle mie canzoni preferite. Nelle tante versioni, interpretate da chi avrei considerato, allora, più moderno di lui, non ce ne è una che mi abbia mai rapito come la sua, anche interrotta dall’abbaiare di Minou. Si prendeva i miei attacchi, non senza ribattere: “Ma lo sai che i miei pezzi li hanno cantati in tutto il mondo! Piacciono anche al tuo amato Claudio!” Una volta stava quasi per portarmi a conoscere Baglioni, mi ero preparata pure a stare zitta (difficilissimo dato il mio amore sconsiderato del periodo). Mi chiese così tante volte scusa perché non aveva potuto realizzare il mio sogno: rischiò molto, ma capii che non dipendeva da lui e lo devo ringraziare per l’emozione di quell’attesa.
“Anche quando la vita corre sulle tue dita, non puoi mica inseguirla come lo vorresti tu.” Una delle frasi di C’è voluto tempo, il brano con cui avrebbe meritato di tornare a Sanremo, dava il senso della sua storia così dura, travagliata, mai doma, che io ignoravo. In essa, però abbiamo avuto il privilegio di stare per un breve tratto, in un ruolo che è racchiuso proprio nella cassetta ritrovata. Ci aveva registrato un pezzo dedicato a nonno Manfredo, pochi giorni dopo che era morto: un dono per mamma affinchè la memoria di quel padre dolce, attento e simpatico non fosse triste e malinconica, ma allegra così come l’aveva interpretata sui tasti la sensibilità incredibile di Umberto.
Ieri, mentre stava per partire l’ennesimo Festival di Sanremo, io ho pensato alla traccia unica che un maestro, compositore, cantautore, osteggiato da un’opinione pubblica ignorante e beghina, ha lasciato nella nostra vita con la sua musica impastata di ricordi, quotidianità, condivisione e genio.
Riuscì a partecipare al Festival, nel 1996. Con Massimo si erano già trasferiti fuori Roma, lasciandoci orfane sul pianerottolo. La canzone, Letti, forse non era perfettamente nel suo stile, anche se la ricordo a memoria e spesso la canticchio, suscitando curiosità in chi mi è accanto: “è lì che ha un senso avere l’anima, è pallida, anonima.” Seguirono periodi bui, ogni tanto siamo andate a trovarlo vicino Viterbo dove agli amati shih tzu aveva unito anche una serie di gatti da accudire. Le sue telefonate a mamma erano almeno settimanali, fino a quella terribile sera di maggio del 2002. Diede la notizia anche il telegiornale. Io e Anne rimanemmo vicino a lui tutto il tempo che si poteva nella camera ardente del Campidoglio: “siamo state le sue vicine per molti anni, gli volevamo tanto bene”. Rispondevamo a chi ci chiedeva chi fossimo.
“Questo sarà l’addio, ma non pensiamoci. Con una stretta di mano, da buoni amici sinceri, ci sorridiamo per dirci: Arrivederci.” Come vorrei che la cantasse, una di queste sere, Tiziano Ferro, ricordando quanto Umberto abbia regalato a tutti coloro che si emozionano nei silenzi pieni, sospesi tra i tasti di un pianoforte.
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