“E’ solo influenza, questo è chiaro e benedetto, ma sfugge il motivo per cui non ci consentiamo di vivercela come quei fortunati delle pubblicità che guardiamo con invidia attorcigliarsi ad una coperta sul divano. Quel sofà che rappresenta le nostre Bahamas. L’alternativa onirica è il sogno di Burioni arciere che lancia frecce di vaccino ad immunizzarci per sempre.”
“Vuole una caramella?” Non è stata una proposta ammiccante di un intrepido conoscente per intessere una conversazione, ma il tentativo di una compassionevole signora anziana di salvarmi da un attacco di tosse senza fine. Ero nella palestra dei bambini, luogo dall’aria insalubre, risultato dell’incrocio di batteri di portatori sani e insani dai 3 ai 16 anni. Mi sono trascinata con la bronchite, il naso chiuso, la mente offuscata, per non far perdere a Luca e Viola l’ennesima lezione dopo che erano stati influenzati per una decina di giorni. E’ uno di quei comportamenti che appartiene all’elenco di quanto il medico di base consiglia di evitare per guarire prima. Un incontrollabile istinto che risponde all’incoscienza che vorrebbe renderci immortali al grido: “se mi fermo io, chi lo fa?”
E’ vero che controlliamo esistenze multiple con incastri di attività, orari, impegni, scadenze, riti che nemmeno la fabbrica dei post – it potrebbe contenere, ma è onesto ammettere che abbiamo perso, o forse non abbiamo mai avuto, una capacità fondamentale: la delega. Solo scrivere la parola ci evoca terrore e la superba consapevolezza che nessuno potrebbe riceverla per fare tutto come pensiamo si debba fare.
Parlo al plurale perché mentre io espettoravo, appesa ad un quadro svedese rotto, nell’attesa che i miei piccoli ginnasti cessassero la ferale lezione, mia sorella con 38.2 partecipava a balli di gruppo ad una festa in maschera alla quale il figlio, l’adorato Francesco, non poteva proprio mancare; stessa temperatura corporea il giorno successivo quando lo ha portato all’irrinunciabile lezione di catechismo.
“Non passa mai questa influenza!” Ci ripetiamo, incontrandoci davanti scuola, tremanti, con indosso colbacchi e sciarpe tibetane in mezzo a madri e padri con spolverini e berretti. Deve essere una questione genetica, anche se la rintraccio pure in altre amiche: la volontà stoica a resistere in piedi ai malanni di stagione, fiere guerriere della amoxicillina, ammalate da gennaio fino a giugno. Bisogna ammettere che non siamo dotate di quei super papà da competizione: coloro che portano i figli a scuola più di una volta a settimana, sono in grado di riconoscere i loro amici, si spingono addirittura ad esserci per alcune attività pomeridiane e, non paghi, fanno la spesa e cucinano persino. Già considerare anormali, nella sfera dell’eroico, questi comportamenti, rende più chiara la nostra convinzione di onnipotenza. Gian che se potesse, giura, lo farebbe, crede che siano privilegi di chi fa lavori che lasciano maggiore tempo libero. Lui è in giro dal lunedì al venerdì come potrebbe compiere anche solo uno di questi epici gesti.
Quindi, si oscilla, vaneggianti, con abbigliamenti inconsueti per rispondere all’escursione termica sfalsata (dal gelo all’ipersudorazione in pochi secondi); la parte del viso, dal naso al mento, deturpata dal continuo sfregamento di fazzoletti e sfoghi febbrili, tra gli sguardi anche un po’ schifati e diffidenti di chi sposta i bambini al nostro passaggio. Fino a quando, la più diretta, la più sincera, la più crudele delle donne (tocca ammettere che è quasi sempre femminile la carnefice), vanifica qualsiasi fondotinta durata 48 ore e inchioda con un: “che faccia che hai! Si vede proprio che non stai bene! Dovresti riguardarti”
Sentenze che gettano un peso sulle ossa atto a sgretolare le giunture sia delle gambe, sia delle braccia che finora, precarie, avevano retto. La risposta è una incontrollata raffica di starnuti, mista a colpi vibranti di petto, per un desolato: “c’hai ragione, ma sto prendendo le medicine.”
Unica arma a cui non deroghiamo sono i farmaci, anzi, per autoconvincerci che la ripresa sia vicina, commettiamo un altro sgarro contro l’incolpevole medico di base: aumentiamo le dosi consigliate. Lo stomaco emette suoni di oboe senza coprire l’intestino che orchestra tutto il resto degli ottoni. Inappetenti, ci cibiamo solo di fette biscottate, pane secco, clavulin, tachipirina, fermenti lattici, annaffiati da levotus e sobrepin. In casa, però, ci sono gli approvvigionamenti da tsunami che ci siamo caricate per impedire che mancassero merendine, yogurt, succhi di frutta per le creature.
Con gli occhi stretti per la sopraggiunta fotofobia, riusciamo a scorgerci allo specchio e ci facciamo un po’ pena da sole. Si prova la carta mistificazione: basta compiangersi, tiriamoci su, fingiamo di stare bene! Via la lana, raddoppiamo le gocce di codeina, il paracetamolo diventi una molecola del nostro sangue, più fard, matita marcata intorno agli occhi anche se si scioglie.
Tratteniamo la tosse, assumendo un colorito violaceo ed esplodendo in nascoste e fragorose esplosioni bronchiali.
“Ho riposato un po’ il pomeriggio, ora aggiungo il cortisone e vedrai che sconfiggiamo l’infezione”. Ha dichiarato, tronfia e verde in viso, mia sorella.
“Mamma, non ti preoccupare, non leggere più, mi fai paura!” Ha sussurrato, invece, intimorita, Viola mentre cercavo di finire l’interpretazione della nuvola Olga con la voce ormai profonda di Amanda Lear, alternando pause di respirazione per immergermi negli abissi marini.
La finzione si fa realtà perché rientra nel diabolico disegno dell’immutabilità. Nulla deve cambiare nei ritmi della giornata. Scuola, pranzo, compiti, amici, palestra, lotta per distogliere dalla play station, favola notturna. Intanto scrivere, telefonare, disegnare, mandare messaggi. La postazione al computer è un’immagine sconsigliata da medici, farmacisti e soprattutto omeopati italiani: fazzoletti sporchi, bottigliette d’acqua aperte, gocce, caramelle, pillole vaganti.
Mia sorella ha confessato di aver disegnato ad occhi chiusi mentre dormiva.
Va tutto bene, ce la possiamo fare.
E’ solo influenza, questo è chiaro e benedetto, ma sfugge il motivo per cui non ci consentiamo di vivercela come quei fortunati delle pubblicità che guardiamo con invidia attorcigliarsi ad una coperta sul divano che rappresenta le nostre Bahamas.
L’alternativa onirica è il sogno di Burioni arciere che lancia frecce di vaccino ad immunizzarci per sempre.
Perché non chiediamo aiuto? Sono cinque lettere, ma impronunciabili.
Se proprio non riusciamo, potremmo almeno provare a non sentirci indistruttibili, a soccombere, abbandonando il dubbio che con noi tutto crollerà.
Accettiamo la caramella, il rabarbaro non ha mai ucciso nessuno; saltiamo le lezioni di ginnastica, non sarà per questo che i figli non arriveranno alle olimpiadi; abbandoniamo anche la festa più attesa dell’anno ( ce ne saranno altre); infiliamo la tuta e financo i calzettoni pesanti ( senza uscirci) e sveniamo per un giorno: solo 24 ore di benedetta influenza!
Non ho ancora tossito: devo essere guarita.
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