Grazia, Damiano, Alfredo e Zenka non festeggiano, ma lottano insieme

reama stelle lilliPer chi non può più parlare, perché privata anche della vita, da esseri vigliacchi, violenti e scevri di qualsiasi forma di amore, ci sono figli, genitori, fratelli che decidono di trasformare la disperazione in richiesta forte di giustizia e di diritti e ci sono altre donne che denunciano, portando avanti la loro difficile sfida per libertà.

reama stelle lilliPer capire cosa significhi la violenza sulle donne bisogna provare, anche solo per pochi minuti, ad immedesimarsi nel dolore e nella frustrazione continua, spesso celata, di chi ne è vittima. Per chi non può più parlare, perché privata anche della vita, da esseri vigliacchi, violenti e scevri di qualsiasi forma di amore, ci sono figli, genitori, fratelli che decidono di trasformare la disperazione in richiesta forte di giustizia e di diritti e ci sono altre donne che denunciano, portando avanti la loro difficile sfida per libertà. REAMA ha messo insieme diverse di queste esperienze, dalle parole di alcuni dei protagonisti la consapevolezza necessaria, ogni giorno, non solo oggi 8 marzo, della necessità di combattere uniti, donne e uomini, una battaglia comune contro il buio dell’ignoranza e della violenza, per riaccendere la luce dei diritti e dell’amore. Mercoledì nella casa delle donne, 4 storie si sono diffuse nel silenzio, interrotto solo dall’applauso finale di ringraziamento per la condivisione di percorsi angoscianti che trovano, però, nella rete uno sbocco verso nuova vita. Ecco le loro tracce.

Grazia  e la libertà in un sorriso

Ha subito dal marito per nove anni, violenze sia fisiche, sia psicologiche. Nel 2011 ha deciso di denunciare ed è cominciato un altro calvario nel percorso per ottenere giustizia, fino ad una sentenza di prescrizione, scritta da una giudice donna. Grazia Biondi rivendica la necessità per chi subisce violenza di essere ascoltata, creduta e tutelata. Nelle sue parole anche la volontà di non rimanere per sempre vittima, ma di cercare il riscatto nella libertà di tornare ad essere sé stessa.

“Chi è vittima ha bisogno di dare un senso al dolore vissuto. Ho cercato nei gruppi di auto mutuo aiuto e anche nei social network di superare la mia condizione di vittima attraverso la condivisione. Insieme si può superare lo stigma di chi ci considera matte, sopra le righe: vittime che devono rimanere da parte. Perché il fronte di chi ci rende tali è molto compatto. Non ci colpisce mai uno solo, ma anche chi sapeva e non ci ha aiutato, chi non ci ha tutelato abbastanza, chi ha taciuto. Nel riconoscere la presenza di una comunità omertosa come parte del problema, si può rintracciare anche la soluzione. “

Grazia ha vissuto anche la gogna di chi ha bilanciato la sua sofferenza con il tenore economico e il prestigio sociale del marito, e di chi voleva imporle uno stile per rendere credibile la sua sofferenza.

“Ricordo che incontrai un’operatrice che mi disse che ero, troppo composta e generica nel parlare di quanto avessi subito, per essere ritenuta credibile. Quasi mi si consigliava di trasformarmi in un fenomeno da baraccone affinché mi credessero. Io voglio raccontare la mia libertà. Invece ti attaccano il marchio e vogliono che lo interpreti per sempre.

Se sorridi non sei credibile, ma non sanno quanto dolore e quanta dignità si celi dietro il rossetto. Pare quasi si debba morire per essere creduti.”

Grazia non ha ceduto, è andata avanti, ha creato dei gruppi in rete, trovando conforto nella scrittura e nella condivisione. E’ una donna elegante, porta dentro il suo dolore e lo fa uscire come insegnamento per non rinunciare mai alla libertà. Si commuove, ma ha ritrovato la forza di sorridere, consapevole che quanto ha subito non lo dimenticherà mai, ma non sarà quel mostro nero a dare il senso e l’identità alla sua vita. Quella non l’hanno avuta e non l’avranno.

Damiano dalla disperazione ai diritti

Ci sono vari modo di convivere con il dolore , c’è chi prova a dimenticare e chi tenta di ripartire da questo. Damiano, fratello di Tiziana Rizzi, uccisa dal marito il 9 luglio del 2013, in provincia di Pavia, dopo l’incredulità iniziale si è messo sulla seconda strada. Per ricordare la sorella ha creato la onlus Tiziana Vive che entra nella rete di REAMA per costruire insieme a tante compagne di viaggio, percorsi di diritti e di consapevolezza.

“Entrando in questa casa, un passo alla volta, leggendo le scritte e guardando le foto, sentivo battere il cuore più forte, come se ci fosse anche quello di mia sorella nel mio. Lei che non ha avuto la possibilità di incontrare REAMA e salvarsi. Ho chiamato io Pangea, appena è accaduto ciò a cui, all’inizio, non riuscivo proprio a credere. Sono uno psicologo clinico, ma potevo razionalizzare il fatto che una donna di 37 anni fosse morta perché il marito voleva toglierle la testa.”

Damiano conosceva il presidente di Pangea per altre questioni legate alla sua professione e ha trovato nell’organizzazione un aiuto concreto.

“Senza Pangea non avremmo avuto un avvocato e mio nipote, che ora è mio figlio, sarebbe stato affidato ad una casa famiglia, aggiungendo altro dolore alla mia famiglia. Ricordo lo sguardo di mio padre quando, prima dell’udienza del processo, il cancelliere ha fatto l’appello e ha chiamato “Tiziana Rizzi”. Nessuno si è scusato per quello che è stato sicuramente un errore in buona fede, ma che ha rinnovato l’incredulità di ritrovarci davanti all’assassino di mia sorella e sentirla chiamare, quasi come fosse imputata anche lei. Chi l’ha uccisa ha chiesto il rito abbreviato ed è stato condannato a 16 anni.”

Damiano ha cominciato una nuova parte della sua vita dopo l’omicidio di sua sorella e modificato in parte anche la sua prospettiva professionale.
“Seguo diverse donne vittime di violenza. In “Tiziana Vive” abbiamo predisposto un ambulatorio medico. Il marito di mia sorella aveva detto di non sentirsi bene e gli avevano consigliato di fare sport, forse se avesse trovato orecchie più attente ed esperte, si sarebbe capito che aveva problemi più gravi e Tiziana sarebbe ancora qui. Finora abbiamo allontanato tre donne dai compagni violenti. E’ un impegno continuo che io ho deciso di prendere davanti la bara di mia sorella.

Non poteva finire così. Per questo mi piace pensare che oggi nella rete di REAMA entrino anche Tiziana e suo figlio che ora è mio.”

Damiano riconosce il potere della condivisione e anche la necessità di un percorso di dolore da cui far ripartire, più forte, le rivendicazioni di diritti.

“Non mi sono mai disperato in questi anni, ho cercato se ci fossero posti dove farlo, perché i diritti nascono dalla disperazione: quando si sente di averli persi, si esce da se stessi, si ritrovano gli altri e si riconquistano insieme pezzi di civiltà. Penso di aver trovato finalmente il modo per disperarmi e lottare con ancora più forza.”

Alfredo grazie ai nonni è un uomo buono

Le vittime di femminicidio non sono solo le donne uccise, ma anche i loro figli, orfani e i loro genitori. La mamma di Alfredo è stata uccisa quando lui aveva solo 4 anni. Stava uscendo dalla chiesa, a Foggia, e il marito le ha sparato. Quel bambino che la legge definisce orfano di femminicidio, è rimasto solo, ha cercato di ricordarsi almeno il profumo di sua madre affinchè di lei non rimanesse solo l’immagine delle violenze a cui aveva assistito. A 18 anni ha cambiato cognome e si è iscritto a legge per intraprendere un percorso di giustizia, libero dai fantasmi del passato.

“Il mio dolore mi spinge a combattere, per questo ringrazio e apprezzo l’impegno di chi decide di stare con me in questa battaglia anche se non ha vissuto direttamente il problema. Io sono vittima di femminicidio: faccio parte di quella schiera di figli e genitori di cui non si sa più nulla, quando cala l’attenzione sull’omicidio della propria madre e figlia. Credo che i miei nonni siano stati vittime come me, costretti a convivere per sempre con un dolore. Mia madre quel 21 febbraio del 2003 era in Chiesa, un luogo dove si va per stare al sicuro, invece è stata ammazzata. Io, che avevo vissuto con lei i miei primi quattro anni tra le violenze continue che subiva da mio padre, ho elaborato il suo omicidio come la fine di un calvario. Il suo unico difetto è stato perdonare sempre quell’uomo per amore mio, lo aveva anche scritto in un suo diario che lo faceva per suo figlio. “

La storia di Giovanna, raccontata da suo figlio Alfredo, è quella di una donna che aveva deciso di liberarsi, partendo da se stessa, ma non le è stato consentito.

“Mamma aveva iniziato a lavorare, ma tutto quello che guadagnava veniva gestito da mio padre che decideva quanto poteva darci. Quando mia madre capì che non ne poteva più, ha chiesto la separazione. Le minacce sono cominciate subito insieme alle botte. La raggiungeva e picchiava ovunque, anche davanti a me. Dei miei primi 4 anni ricordo solo momenti brutti, non il viso di mamma, ma il suo profumo quando si metteva a dormire vicino a me. Un giorno quell’uomo mi trascinò per un braccio, spingendomi a guardare mia madre mentre la insultava con volgarità. Io ho capito che padre fosse e in quali condizioni stesse mia madre.”

Alfredo è cresciuto e, grazie all’amore dei suoi nonni, ha capito che uomo diventare.

“Mi hanno salvato i miei nonni. La prima causa di violenza deriva dalla cultura e dall’educazione: i miei nonni mi hanno cresciuto nel valore della famiglia e nel rispetto delle donne. Pensare che mentre io parlo, ci sono dei miei coetanei che a Napoli hanno commesso uno stupro mi fa capire quanto sia stato importante per me proseguire la mia vita con due persone forti, provate dal dolore, ma consapevoli, come i miei nonni.
A 18 anni ho scelto di cambiare cognome e prendere quello di un uomo buono, mio nonno, togliendomi la vergogna di portare quello di un assassino.

Perché esistono uomini per bene e vorrei che ce ne fossero sempre di più a lottare insieme alle donne. Si deve combattere insieme per i diritti.”

Zenka si libera dal suo mostro nero

La violenza entra dentro chi la subisce, scava solchi profondi, si nasconde nelle pieghe e rimane come un’ombra che blocca. Zenka ha scoperto quello che definisce “il suo coinquilino oscuro” a 44 anni, quando ha deciso di frequentare un corso di Pangea per fare impresa, ma, sin dal primo incontro con la Fondazione ha capito che stava per intraprendere un altro percorso. E’ stata una figlia che ha assistito alle violenze del padre sulla madre, oltre ad essere stata direttamente minacciata e picchiata.

“Per i primi 23 anni della mia vita ho vissuto nella violenza, quella di mio padre, della mia famiglia e anche quella della guerra dei Balcani, al punto da considerarla la normalità. Sono cresciuta in Croazia, mio padre era militare, mia mamma lavorava in polizia. Ho un’immagine fissa della mia infanzia: un pomeriggio di quando avevo 4 anni, trascorso serena con mia mamma, scorrazzando sul mio triciclo rosso, fino all’arrivo di mio padre. Appena arrivato, aggredì mia madre fino a darle uno schiaffo forte. Era un continuo, puntò la pistola di ordinanza anche contro di me perché provavo a difendere mamma. Più impresse sono le ansie della notte, quando sentivo che gridava nel silenzio e, nella paura, imploravo che finissero. Mia madre ha chiesto aiuto ai suoi colleghi, ma era pericoloso denunciare: eravamo sole.”

I lividi sono fuori e dentro chi li subisce. Le conseguenze non sempre sono visibili.

“Questa situazione mi rendeva sempre stanca, in tensione, al punto da essere considerata diversa, poco divertente anche a scuola dove rendevo meno rispetto a quanto mi impegnassi. Questo è stato un altro motivo di rabbia per mio padre, non corrispondevo alle sue aspettative e meritai violenze anche io. Fino al 91 quando scoppiò la guerra e andò a combattere. Io e mia madre abbiamo vissuto sospese tra la speranza e la paura del suo ritorno. Nel 93 sono arrivata in Italia con una grande voglia di vivere a cui si contrapponevano continui attacchi di panico. Nel 96 mio padre ebbe un incidente: la sua morte l’ho vissuta con disperata liberazione. Nel frattempo ho accettato qualsiasi lavoro, puntando ad un solo obiettivo: creare la serenità di una famiglia. 10 anni fa è nata mia figlia e abbiamo avuto l’occasione con mio marito di metterci in proprio.”

Ci sono eventi che hanno la forza di far emergere quanto parrebbe dimenticato e cercano di spingere verso una nuova consapevolezza.

“Io avevo ora il dovere di educare mia figlia, ma mi sono bloccata. Per la prima volta mi sono chiesta chi fossi io, prima non c’era tempo per capirlo, bisognava salvarsi. Leggendo la brochure di Pangea ho avuto un’illuminazione. “Il minore, vittima di violenza manifesta nell’immediato disagio, depressione, difficoltà scolastiche, bassa autostima”. Ho trovato nero su bianco la descrizione del mio coinquilino amaro e la chiarezza per andare avanti.

Ora voglio vivere anche solo per un attimo la sensazione di libertà e avere la forza di bloccare l’effetto domino per garantire a mia figlia un presente e un futuro diverso. “

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