Le mani applaudono la gioia, la bravura, la spensieratezza, la topina, i lupi, le Tartarughe, la gimkana impossibile di incastri di prove e di orari che non coincidono mai, le scenografie e i costumi: la fatica di una scuola che resiste e che continua a lanciare messaggi positivi, utilizzando la magia di suoni, parole, rumori reali del teatro per coprire e salvare dalla tempesta che sembra circondarci.
Bisogna ammetterlo la fine dell’anno scolastico per noi genitori è il trionfo dell’ipocrisia, l’apice della finzione applicata alle relazioni, l’ultima estrema fatica che si richiede al nostro ruolo sociale: le cene, i saggi, le partite e le recite.
L’esaurimento finale
Il calendario, tra fine maggio e giugno, sembra non riuscire a contenere le giornate necessarie per poter assistere alle magnificenti presentazioni dei risultati di ogni attività svolta dagli eredi. Maestri e allenatori entrano in un tunnel di ansia di prestazione, tra prove e preparazioni finali: “c’è uno spazio la domenica alle 15 che potremmo utilizzare! Custodite i costumi in una teca! Potenziate gli antibiotici! Nessuno può mancare”. Ci lasciamo trasportare dal vortice: annotiamo tutto ciò che viene impartito, orari, abbigliamenti, costi, regole scritte e non scritte su cui si riescono ad animare dibattiti strazianti nelle chat.
Sembra una retorica, sulla quale è anche difficile ricamare dell’ironia, se si è coinvolti, ma poi accade l’inatteso.
La costruzione della sorpresa
Che la recita della classe di Viola, quest’anno, puntasse ad un obiettivo diverso dall’esegesi finale delle buone prassi scolastiche, lo avevo intuito sin dall’emozione dei primi incontri con l’esperto esterno. Una figura eroica che, ignara della gimkana di orari, liti e difficoltà che dovrà affrontare, si lancia nella gestione di bambini, stanchi e demotivati, per periodi variabili che possono segnarne per sempre l’esperienza umana e professionale. Non sono progetti, ma sfide esistenziali al limite della resistenza.
Giuliano Ferri, che ho scoperto essere un’autorità per l’utilizzo maieutico del teatro, è entrato nella vita delle quarte della scuola Carducci con un sorriso beffardo e li ha subito coinvolti nell’impresa. Non un saggio, non una rappresentazione da atrio dell’istituto, ma la preparazione di uno spettacolo vero e proprio: scenografie, costumi, voci da allenare, silenzi da comprendere, coreografie e battute da imparare, nei toni e nelle espressioni, adatte al personaggio da interpretare.
Da gennaio so anche io, cosa e come avrebbero ballato, nella prima scena della speciale storia dell’Arca di Noè che sarebbe stata allestita. Ho intrapreso un percorso parallelo di introiezione del topo che sbeffeggia gli elefanti. Ovviamente Viola ha avuto la parte dell’animale che incarna ogni mia fobia, ormai simbolo delle nostre origini capitoline: l’ineffabile ratto che lei ha nobilitato nella “topina”.
Viola in realtà sapeva le battute di tutti: dal lupo alla tartaruga. Le ha ripetute quotidianamente, ad alta voce, con una gioia che incarnava, nel naturale esaurimento a cui mi sottoponeva, l’evidenza della magia mimetica dell’arte teatrale.
Si va in scena
Ieri sera, il grande evento. Una sola certezza: costumi e scenografie sono state realizzate dalla nostra premio oscar, Stefania, colei che non ha bisogno di cognome, emblema della madre che nemmeno il pubblicitario più attento potrebbe ricreare per la rappresentazione del coordinamento massimo di ogni funzione. Se Lina Wertmuller la conoscesse, dovrebbe trovare un’altra Mariangela Melato ad interpretarne la forza, che si esprime anche attraverso l’ironia, nel seguire, nei minimi particolari, la cura dei suoi 4 figli e di tutti i compagni di classe degli stessi per cui riesce a risolvere qualsiasi esigenza, anche artistica. Ogni animale aveva il suo dettaglio originale e l’arca era stata ricostruita, quasi in scala reale, in regola alle norme sismiche: altro che diluvio universale, nulla l’avrebbe abbattuta.
Con il rispetto che si deve a tanto lavoro, per la prima, dopo mesi, ho osato vestirmi più elegante: la pettinatura che ama Luca e persino il rossetto sulle labbra. Unica coerenza: le converse ( si sa che si deve sempre correre). Peccato che la maggioranza del pubblico non sia stato colto dal mio stesso entusiasmo, tanto che, in un leggero imbarazzo, mi sono rivolta a colei che mi dona certezze. “Lilli mi sa che ho esagerato, pure la maglietta con i brillantini…” “ Ma no, non ti preoccupare, guarda le nonne si sono messe quasi tutte eleganti come te.”
Freddata dalla franchezza, ho provato a contenermi almeno nelle emozioni, ma non è stato possibile.
Genitori sconfitti dalla gioia
Sin dalla prima coreografia. Nella rivisitazione di un grande classico del Quartetto Cetra, l’ansia iniziale non ha bloccato la coordinazione dei 60 animaletti più Noè, moglie (interpretazione eccezionale di una delle maestre) e narratore, regalando un’energica svegliata anche al padre più stanco, nascosto dietro lo schermo dell’i – phone.
La strategia del genitore pigro è ormai svelata: si innesta una specie di braccio meccanico, incastonato nel bracciolo; si riprendono tutte le prestazioni della prole, a simbolo della presenza attiva, per poi vendicarsi con parenti e amici assenti, o senza figli, costringendoli alla visione oscillante e dal sonoro ambiguo di imprecisate inquadrature di gambe, piedi e primi piani inquietanti.
Il teatro, fatto da passi che battono sul pavimento, mani che rappresentano, voci che si abbassano, suoni che le comprendono, può vincere sulla tecnologia, soprattutto se un tuono fa sobbalzare sulla poltrona.
Prima che l’Arca appaia sul palcoscenico dello Sperimentale, la tempesta è già iniziata: i fulmini sono i piccoli attori che fingono di non preoccuparsi dell’alluvione e ballano Rovazzi, coinvolgendo un Noè dubbioso, preso da sogni e progetti di salvezza di una comunità confusa.
Si possono mettere insieme le diversità ataviche di maiali e pavoni? Far convivere lupi e pecore? Non far schiacciare topi, né irridere elefanti dalle volpi? Il dubbio rimane per i 60 minuti della narrazione, veicolato ( genio Ferri) da atmosfere alla Kubrick, con l’utilizzo della musica classica, ritmata da finti duelli, quasi danzati sulla superficie di onde di carta velina.
Si sale a bordo, pochi gli sbadigli in platea. Le scene dei singoli confronti tra le distanze delle specie, sono esilaranti. Oltre alla mia topina, per me trionfano le tartarughe che devono far tollerare le lentezze e i lupi, costretti a nascondere la ferocia.
Ci si annoia sull’Arca, ma il pubblico no: è preso a capire come riusciranno a stare insieme. Intercetto lo sguardo di Viola che tiene il tempo dietro le quinte prima di entrare: l’emozione potrebbe straripare nelle lacrime, per fortuna mi distrae Luca che fa rumore nel corridoio laterale ( i fratelli minori sono le altre vittime che meriterebbero riconoscimenti ufficiali). Gli animali litigano per il bagno, vorrebbero mangiare la carne, si scontrano sulle tabelline, proclamano la sciopero e la rivolta. Cade in acqua l’elefante e tutte le questioni passano in secondo piano: bisogna salvarlo. Ognuno come può. La catena, dai conigli alle volpi, fino anche alle tartarughe ( metterò un poster in camera degli interpreti, ho bisogno di lentezza salutare) riesce a sollevare il grande Petro.
Mentre si festeggia, un rombo sinistro riporta alla realtà. Non sono le onde, ma la terra. L’arca è tornata a riva, il pericolo è passato, si può scendere. Come sarà cambiato ora fuori? Chi ha la forza di affrontarlo, solo? Gli animali vogliono rimanere insieme, chiusi in quella dimensione in cui si sono annullate differenze e paure, sotto la guida di un padre buono, onesto e un po’ matto.
Ci si salva insieme
Non sarebbe giusto, però, fuggire alla responsabilità e alle ricchezze dell’identità reale di ognuno. L’arca resisterà nel cuore, ma insieme si deve trovare il coraggio di scendere, di rischiare, di vivere.
Prima, però, una danza liberatoria. Parte “shake a tail”, un twist scatenato: da Kubrick ai Blues Brothers. Si piange, si ride, si balla, tutti, telefoni in tasca. Le maestre si muovono come nemmeno Jennifer Lopez a 30 anni. La Romina è la nostra Heater Parisi. Noè è Roberto Bolle. Sale anche la preside e si fa trascinare nel ritmo e nelle movenze che riproducono quelle di ogni animale.
Pubblico in piedi allo Sperimentale ad onorare i nostri bambini: coloro che Ferri giustamente ha definito “il tesoro da cui ripartire sempre”.
Le mani applaudono la gioia, la bravura, la spensieratezza, la topina, i lupi, le Tartarughe, la gimkana impossibile di incastri di prove e di orari che non coincidono mai, le scenografie e i costumi ( “sono avanzati anche soldi!” il commento pragmatico della nostrana Milena Canonero): la fatica di una scuola che resiste e che continua a lanciare messaggi positivi, utilizzando la magia di suoni, parole, rumori reali del teatro per coprire e salvare dalla tempesta che sembra circondarci.
Lo sapevo da gennaio che non sarebbe stata una recita come le altre, ma che in un’ora si potesse percorrere tutto l’arco emozionale e ritrovare alcune necessarie certezze, non me lo aspettavo.
Ho fatto bene a mettermi la maglietta con i brillantini e il rossetto: lo spettacolo meritava il tentativo di ognuno di partecipare alla bellezza.
Oggi saggio di coro: altri fazzoletti, la coerenza delle converse, magari una camicia di seta. La vita sa svegliare anche noi genitori esausti, anzi sono i nostri figli a sorprenderci. Ed ora ad amici e parenti toccano foto e video, tutti molto mossi ( per illustrare questo racconto si ringrazia la mano ferma di Gianfelice Mazzei.)
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