Cosa ci fa scegliere di cambiare strada per allontanarci dalla nostra? Come scegliamo i bagagli del passato che non si possono lasciare? Quanto ci spaventano i segnali che ci legano ai ricordi? Perché ci scopriamo a cercarne alcuni e ad amarli?
Mio cugino Andrea, il fratello maggiore che, con piglio infantile, ancora oggi divido in competizione con Anne, ieri ha trovato una mia foto da piccola. La custodiva zia Rita tra le tante che, come mia madre, tengono gelosamente celate in scatole di latta ben riposte. Me l’ha mandata, scherzando sulla mia espressione perennemente imbronciata che in realtà nascondeva timidezze, evidenti in un tic, ormai diventato oggetto di battute famigliari, per colpa del quale ogni cosa che prendessi in mano, nel picco dell’agitazione, inevitabilmente franava a terra. Mi chiamavano “flipper”: scattavo come una molla sia per presunte offese, sia per tensioni improvvise.
Un’immagine di me a 6 anni che mi fa sorridere, restituendomi la necessità di non occultare, né rimpiangere ciò che ero. Mi mancava questo segnale per dare un significato ai pensieri che mi hanno accompagnato nel giorno e mezzo trascorso nella mia Roma adorata, eppure lasciata, senza troppi rimpianti, ormai da tre anni.
Qui, dove ho imparato a non cercare più i motivi che mi hanno fatto scappare, ma quelli che spingono a ritrovarla.
I miei amici che sono tali perché accettano la distanza e il silenzio, condividendo con gioia le parole e la rinnovata vicinanza. Uno sguardo, noto solo a chi ne riconosce il calore e la storia nascosta tra le sfumature. Nicoletta, che nella casa in cui ci siamo raccontate volumi e volumi di segreti risibili o inconfessabili, mi accoglie nelle affinità confortanti di un disordine permanente. Riccardo che non sarà mai abbastanza lontano per venirmi a prendere e portarmi dove devo andare, senza chiedere, perché si fida delle mie destinazioni. Cinzia che c’è nei nostri luoghi anche se non può raggiungermi, a cui devo comunque comunicare la mia presenza in città per ridurre l’ansia della separazione. E poi ci sono tutti gli affetti, di volta in volta ritrovati proprio grazie alla mia decisione di stare altrove, portando con me il tempo che sembra fermarsi e ripartire durante i nostri incontri. Penso a Giulia con cui una birra a Monti ha avuto il sapore di anni di impegno condiviso o a Irene che mi ha aperto il suo rifugio di Prati nelle atmosfere di una Comune di sentimenti, battaglie, delusioni, forza persistente da cui trarre linfa, oltre ad un sacco pieno di wafer.
Ritornare per quel profumo unico di lievito e farina diffusi dal forno di via de La Renella in via del Moro, in grado di inebriarmi, fino alla luce unica che si irradia, in gioco con le ombre, sulla facciata di Santa Maria in Trastevere.
Provare una insana emozione nel prendere l’autobus, dialogando con l’autista e i rassegnati, ma generosi passeggeri, nella ricerca della fermata giusta per raggiungere la meta. Una quotidianità faticosa del passato che diventa eccezione sfidante del presente. “A regazzì lo zaino se mette davanti!” mi ha detto una tipica scocciata signora, rinnovandomi il dubbio che mi porto dietro dalle scuole medie: “ma perché se possono muoversi in altri orari, prendono l’autobus proprio quando vanno o tornano da scuola i ragazzi ingombranti e chiassosi?” Mi sono resa conto che per una volta, nonostante il tentativo di mimetizzarmi, avrei dovuto rispondere io.
Ogni passo, ogni inquadratura degli occhi, lentamente si è riempita di ciò che è stato lungo i percorsi dei miei anni romani, perdendo il filtro della nostalgia per lasciare spazio a qualche leggera appannatura. Non avrei mai pensato di abituarmi altrove, di cambiare il senso e il luogo legato alla parola ritorno.
Nel viaggio verso casa, partendo da quella che lo è stata per decenni nel cuore della capitale, ho scrutato gli angoli: dai binari del tram alla vetrina dei miei amici parrucchieri; dal traffico bloccato a quelle campagne che si perdono all’orizzonte; dall’ingresso in autostrada in fila all’arrivo al casello di Pesaro, solitari.
Nell’espressione, mentre aprivo il portone, pronta ad abbracciare Viola e Luca, come fossi stata via una settimana, ho disegnato involontariamente quel broncio di bambina di 6 anni per celare le sensazioni che mi avrebbero fatto cadere il telefono e le chiavi dalle mani.
A volte si cambia strada per tornare ad avere voglia di ritrovarla. Sembra di portarsi dietro poco, ma è tutto nascosto in uno zaino: quando meno ce lo aspettiamo, emerge un suono, un profumo, un sapore, una foto che ci regala il senso del passato senza il timore di ciò che ha costretto a renderlo tale.
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