Maria è il nome di una giovane donna rumena, uccisa a botte e abbandonata in un giardinetto a Roma. Una storia di violenza, dolore e indifferenza che rischiava di chiudersi senza traccia. Quando è la morte a restituire l’identità ad una vita, abbiamo perso tutti.
Maria trovata raggomitolata in un parco; nascosta agli occhi di una città che ha ripreso a correre; uccisa dalla violenza di un uomo brutale; dimenticata da chi poteva aiutarla,; destinata ad un destino di oblio. E’ una storia che poteva finire senza nemmeno una parola di ricordo, neanche un piccolo spazio nella cronaca locale, se non l’avesse riportata su Globalist, la sensibilità della giornalista Daniela Amenta. Nel suo pezzo prova a ricostruire una identità ad una esistenza che di umano sembra avere solo il nome.
Maria, giovane donna rumena, viveva in un un piccolo insediamento abusivo dietro alla Colombo, una delle strade più trafficate di Roma, veniva costretta a prostituirsi dall’uomo che la picchiava e probabilmente l’ha uccisa a botte. Queste le informazioni su di lei che hanno rilasciato alla Montagnola, il quartiere dove sorge anche il giardinetto dedicato a Don Picchi, dove Maria è stata ritrovata in fin di vita la mattina del 12 maggio.
Spesso sono queste le testimonianze che vengono rilasciate dopo, da chi, intuisce l’orrore e riesce a descriverlo con disarmante lucidità. La banalità del male, nel quale si pensa fosse normale vivesse Maria e per cui non ci si stupisce della sua fine così orribile. Qualcuno aveva visto i lividi sul suo volto, capito che l’uomo ubriaco con cui girava non fosse certo un amorevole compagno: in zona si conosce quel luogo dove, si sa, sopravvivano, celati, i cosiddetti ultimi, chiusi tra di loro. Pensare che lì abbia perso ogni speranza questa giovane donna, stride con la memoria a cui riporta la targa, Don Picchi, un prete, un uomo buono che non avrebbe chiuso gli occhi e le avrebbe teso la mano.
Nessuno lo ha fatto, nemmeno quando stava per liberare il suo ultimo respiro. Quel fagotto abbandonato era stato notato e superato, avrebbe avuto un’altra brutale modalità di identificazione, se non fosse passato un ragazzo più attento e il suo cane a mostrare un ultimo barlume di civiltà. Come racconta Daniela Amenta: “era vicino a una tenda da campeggio, tra lattine di birre e qualche avanzo di cibo. Sembrava un ammasso di coperte, e invece c’era lei, in quel groviglio di vecchi plaid, pallidissima, il volto tumefatto. “ Il cane ha abbaiato forte, ma lei non ha aperto gli occhi. Non lo ha fatto più, peccato, forse proprio alla fine di quella vita così abbandonata alla sofferenza, avrebbe potuto vedere un unico gesto di attenzione: quello degli infermieri dell’ambulanza che l’hanno portata all’Ospedale San Giovanni, dove è morta all’alba del 13 maggio.
Troppe poche informazioni per definire persino la sua morte: omicidio, femminicidio, vendetta. Dall’Ottavo Municipio, l’assessora alle politiche di genere Michela Cicculli, ha fatto sapere che stanno cercando la famiglia di Maria. Se non la troveranno, penseranno loro a cercare di far luce su quella storia così buia. Come gesto simbolico porteranno dei fiori nel luogo in cui è stata trovata, in suo ricordo e per tutte le donne, vittime di violenza.
Resta la profonda angoscia per la vita e per la morte di Maria; per cosa sarebbe potuto cambiare se qualcuno avesse provato ad andare oltre i suoi lividi; per quante come lei portino avanti un’esistenza senza luce, nascoste al mondo in un incubo che, per tanti, può avere solo una fine.
Ringrazio Daniela Amenta che ci ha ricordato come dovere del mestiere del giornalista sia illuminare proprio dove tutti fingono di non vedere, perché ognuno ritrovi e senta la propria responsabilità: perché tutti hanno diritto ad una identità.
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