Domani compio 45 anni, ho deciso di provare a rendermi conto della vita e a fermarne frammenti nella scrittura. Non saranno solo post, ma le mie tracce volanti, a volte spero di riuscire a farle incontrare con i racconti di quelle che trarrò dagli altri, parte integrante della mia continua indagine sulla realtà. Intanto, su suggerimento e ispirazione di una regista di sette anni, oggi quasi 14, rifletto su cosa trasmetterei di queste giornate presenti e prossime alla me del futuro. Nulla è più straordinario della normalità.
Qualche giorno fa, Viola ha ritrovato dei video nella memoria del suo telefono. Non so attraverso quali benedetti algoritmi siano tornate indietro le immagini e le voci di una bambina di sette anni che si riprendeva con un potente tablet fucsia per raccontare dettagli della vita presente alla “lei del futuro”. Piglio deciso nella voce e nei contenuti, più oscillante e frenetico nelle riprese, per un anno intero ha riprodotto in quindici episodi, numerati ognuno all’inizio, la quotidianità di una piccola cronista del suo tempo, scandito da abitudini e imprevisti. Personaggio centrale: suo fratello Luca, tre anni, dichiarati a volte dieci, altre quattro, completamente succube della sorella – regista, di cui ripete ogni gesto e parola, smorzato dal ciuccio, un espediente involontario per doppiarlo come un attore dei western americani.
In un pomeriggio che nemmeno Zemeckis avrebbe potuto prevedere, ipnotizzata su un divano, mi sono persa nel passato segreto dei miei figli. C’ero anche io nei video, ripresa mentre vagavo per i corridoi al telefono; evocata dalla voce stanca quando ero necessaria a reggere la “telecamera”, così la definiva Viola, per immortalare le imprese della coppia; in un paio coprotagonista nella realizzazione di scenette. Ero una presenza nella storia in cui protagonisti erano loro, in grado di mostrarmi in pochi fotogrammi e suoni, la realtà della famiglia intera da una speciale prospettiva. Cinque, a volte anche otto minuti, nei quali la narratrice errante presentava la sua cucina, elencando le vicende che avevano condotto ogni calamita al frigo; descriveva gli oggetti “misteriosi”, disordinati sulle mensole della libreria, dalla pietra “presa da mamma e papà sul vulcano quando erano giovani”, alle macchine intoccabili; presentava gli amici che poi erano zii, cugini, nonni e la sua migliore amica Franci, ognuno con un giusto spazio e primo piano per indicare nome e ruolo nella storia .
Viola dirigeva i giochi, le sfide, le coreografie, le canzoni e persino gli scherzi che caratterizzavano mattine e pomeriggi in casa. In uno si sente Luca che le dice che “è bella da na morire”, in un altro “ho sonno, non ce la faccio più a giocare”. Lei, imperturbabile continuava, riportando l’immagine al centro sui suoi occhi più vispi di una centrale elettrica. C’è il video del compleanno di Luca mentre la torta arriva tra i richiami miei, di mia sorella e di nonno Giorgio per fare silenzio e il festeggiato che tenta di gettarsi dal seggiolone; c’è una pizzica sfrenata, ritmata da nonna Lucia, obbligata a inquadrare il perfetto movimento dei piedi della tersicorea nipote; c’è un tik tok ante litteram nel quale, all’ottavo ciack, riusciamo a ricreare suoni e immagini delle “scimmiette che cadevano dal letto”; c’è Valeria Luce minuscola che pensa di essere su un set fotografico e Francesco che non vuole più essere chiamato Chicco. Andiamo alla recita di Natale discutendo io e il papà sull’organizzazione di cene e pranzi per le feste, rassicurando Luca che non avrebbe dovuto fare lezione a scuola, ma cantare le canzoncine, “sarà uno spettacolo eccezionale” sottolineava la speciale cronista.
“Non possiamo più perdere questi video!” Ho esclamato, occhi lucidi, tossendo per le tante risate miste alle lacrime. I ricordi sono battiti più forti nel cuore: squarciano il presente con il passato, lasciandoti nudo e coperto fino alle spalle per muoverti verso il futuro. Ho ritrovato i miei bambini, le mie stanze, la noia piena e l’entusiasmo veloce di anni che non credevo avessimo vissuto come Viola ha riportato. Scherzando, le ho chiesto “ridammi quella bambina, dove l’hai nascosta?”, fingendo di non riconoscerla nella stessa luce indagatoria e ironica con cui continua a scrutare ognuno di noi. Ho stretto Luca che ancora ha delle movenze da Clint, non è un caso che scherzando lo soprannominiamo “bambino”. Ho mostrato alcuni frammenti ad Anne e a mamma, tra tenerezza e malinconia.
Domani compio 45 anni, ho deciso di provare a rendermi conto della vita e a fermane frammenti nella scrittura. Non saranno solo post, ma le mie care tracce volanti, a volte spero di riuscire a farle incontrare con i racconti di quelle che trarrò dagli altri, parte integrante della mia continua indagine sulla realtà. Intanto, su suggerimento e ispirazione di una regista di sette anni oggi quasi 14, rifletterò su cosa trasmetterei di queste giornate presenti e prossime alla me del futuro. Per affrontare il peso, provando a donare anche attimi di leggerezza, condividerò. Continuo ad inciampare, perché penso troppo con i piedi, piccoli, persi, nell’aria, ma qualche traccia rimarrà. Nulla è più straordinario della normalità.
La Regione Marche dice No alla richiesta di intitolazione a Gino Strada della sede del corso di laurea in infermieristica di Pesaro. Le motivazioni indignano; la coscienza ribolle; l’appartenenza ad una comunità civile richiede l’impegno a battersi perché non si infanghi la memoria necessaria di un modello unico di medico e di essere umano.
Nel sorriso dei bambini salvati dalle ferite dello scoppio di una mina; nelle donne e negli uomini, curati senza distinzione di lingua, religione, appartenenza, fin nei luoghi più lontani e martoriati del mondo; nei medici, negli infermieri, nei soccorritori, formati al cospetto di chi non ha mai negato il sostegno della propria esperienza e competenza: le tracce di Gino Strada, fondatore di Emergency, sono nel vento di amore, pace e solidarietà che ha fatto soffiare forte e continua a contrastare le correnti di odio, pregiudizio, egoismo.
Non ha bisogno, lui, di strade, piazze, eventi che lo ricordino: siamo noi, i nostri figli, nipoti, le generazioni presenti e future ad avere necessità che non venga mai dimenticata la sua figura.
E’ una premessa che l’indomani del 13 agosto del 2021, la giornata funesta che lo ha portato via dalla terra, poteva sembrare inutile. Si levò, unanime il coro delle ovazioni e degli elogi post mortem, financo dei più acerrimi oppositori. L’onore delle armi, per una vita densa, impegnata, mai vile, discreta, ma schietta, volta al sostegno dei più deboli, concessa anche da parte di coloro che non l’avevano mai compresa, anzi osteggiata con mistificazioni utilizzate per provare, vanamente, ad adombrarla.
Oggi, dopo neanche due mesi, il 6 ottobre del 2021, bisogna ribadire ciò che più ovvio non è, ai rappresentanti della Giunta Regionale delle Marche che si sono permessi di rigettare la richiesta di intitolare a Gino Strada la sede di un corso di laurea in infermieristica. A presentarla i consiglieri del PD, Andrea Biancani e Micaela Vitri, certi che mai avrebbero dovuto ascoltare un diniego, basato sulle stesse infamanti falsità, con cui spesso, il fondatore di Emergency, era stato attaccato in vita.
La prima piazza dedicata nel comune di Pontedera in Toscana
Le motivazioni, impunemente lette in aula, sono un insulto che si sperava di non ascoltare più: non si può dedicare nulla a chi viene definito una figura ideologizzata, aggiungendo addirittura l’inopportunità di intitolare un luogo pubblico a chi si sarebbe macchiato di un passato violento.
Se avessimo la capacità di Gino Strada di affrontare ogni giorno con occhi, cervello e cuore alle vere questioni importanti come il soccorso e la salvezza del prossimo, riusciremmo a scrollarci di dosso le parole così odiose. Se fossimo come la sua meravigliosa figlia, Cecilia, che pure ha finalmente messo nelle mani di legali e si è pronunciata pubblicamente contro le calunnie più crudeli verso il padre, troveremmo il senso della risposta nel proseguimento di un lavoro incessante in mare e nelle zone di guerra, proprio nel nome di quanto fondato da Strada.
Non siamo loro, per questo abbiamo bisogno, di ciò che hanno rappresentato e sono, per superare l’ottusità e l’ignoranza di chi nega la realtà.
Mai come in questo periodo storico, siamo chiamati a conservare la forza, la lungimiranza, la ricchezza d’animo, l’umiltà di riconoscere di dover ancora imparare: di avere necessità vitale della memoria pubblica non di un uomo, ma dell’umanità intera, di cui quello stesso uomo, sua moglie Teresa, sua figlia Cecilia, sono patrimonio.
“I pazienti vengono sempre prima di tutto.”
Ripeteva il chirurgo di guerra, Gino Strada.
Studiare come curare i malati in un luogo che ne evochi l’esperienza, l’etica, i valori e gli obiettivi significa accreditare da subito la motivazione.
La sede del corso di laurea in infermieristica presso il presidio ospedaliero di Muraglia dell’ Ospedali Riuniti Marche Nord poteva essere la prima ad offrire, anche questo onore. alle aspiranti infermiere ed infermieri.
Rispetto a quanti fuggono dalla professione per la mancanza, il più delle volte oggettiva, delle condizioni per svolgerla, intimoriti da una precarietà costante, ribadire l’immagine di colui che ha lottato e operato laddove era ancora più duro farlo, vale corsi ad ingresso libero, concorsi per meriti, diritti rispettati.
Quando Gino Strada è morto, Cecilia Strada era a bordo della ResQ People saving people, la nave sulla quale, insieme a volontari di diversi paesi del mondo, salva chi fugge dagli orrori della guerra. Nel suo profilo social è riuscita a scrivere:
“Amici, come avrete visto il mio papà non c’è più. Non posso rispondere ai vostri tanti messaggi che vedo arrivare, perché sono in mezzo al mare e abbiamo appena fatto un salvataggio. Non ero con lui, ma di tutti i posti dove avrei potuto essere…beh, ero qui con la ResQ – People saving people a salvare vite. È quello che mi hanno insegnato mio padre e mia madre.”
La memoria di Gino Strada è un insegnamento che salva i valori dell’umanità.
Non ha nessuna appartenenza, perché di tutti è l’amore che ci ha lasciato.
“Quel che facciamo per loro, noi e altri, quel che possiamo fare con le nostre forze, è forse meno di una gocciolina nell’oceano. Ma resto dell’idea che è meglio che ci sia, quella gocciolina, perché se non ci fosse sarebbe peggio per tutti. Tutto qui. È un lavoro faticoso, quello del chirurgo di guerra. Ma è anche, per me, un grande onore.”
GINO STRADA, medico, chirurgo di guerra, uomo di pace
Avrei avuto tanto da raccontarti sui mesi nei quali abbiamo provato paura, ansia, nostalgia, distanze e voglia di stare insieme, di nuovo. Saresti stata il pensiero di luce che racchiude la speranza anche nelle storie più buie.
Durante la prima ondata del virus, la città di Pesaro venne colpita duramente. Fu tra le province già rosse a fine febbraio del 2020: chiusa dopo un innalzamento imprevisto dei contagi, dovuto anche ad un torneo di basket nazionale che aveva fatto arrivare tifosi da varie parti del paese, prima che venissero adottate le norme di sicurezza. L’ospedale cittadino, il San Salvatore, coadiuvato dal Santa Croce di Fano, cercò di far fronte all’emergenza: medici, infermieri, operatori sanitari non poterono più rispettare turni che divennero infiniti. Il suono delle ambulanze si sostituì a quello delle campane delle tante chiese del centro e alle note del Conservatorio. Persino il mare sembrò fermarsi davanti alla paura, il dolore, l’angoscia che colpì ognuno di noi, costretto a vivere, direttamente, in un’atmosfera a cui non si può essere preparati. A maggio, quando pareva essere fuori dal periodo più duro, alcuni scrissero, provando a lasciare traccia della bufera vista dalla propria prospettiva. L’ho fatto anche io, grazie alla richiesta di Paolo Pagnini animatore di eventi culturali, scrittore, che insieme a Stefano Giampaoli ha raccolto 38 racconti, compreso quello del sindaco Matteo Ricci, nell’antologia Scritti pesaresi della tempesta virale. Nella giornata che si è deciso di dedicare al ricordo delle vittime della pandemia, un numero che purtroppo continua a crescere, mentre siamo nuovamente in zona rossa, ho riletto le mie pagine e deciso di condividerle anche qui. Uscita dalla tempesta, pensai di tornare alla vita, doppia: mi inventai il modo per descrivere cosa era accaduto in quei novanta giorni a chi fosse arrivata dopo nove mesi. Non è diventata realtà, ma nella fantasia, le parole continuano a trasmettermi un senso di speranza, oggi più che mai necessario: un piccolo contributo che dedico a chi non c’è più, a chi ha curato, a chi ha resistito, a chi è ancora in mezzo alle onde e ai tanti bambini, simbolo della fiducia in un futuro di libertà possibile.
Se tu ci fossi stata ti avrei raccontato
Ho accarezzato spesso la pancia in questi ultimi dieci giorni. Credevo che da questa pandemia fossi uscita doppia. Terrorizzata dall’idea di riprendere un’impresa senza sonno, con la schiena a pezzi, di nuovo di fronte all’azzeramento dell’illusione di una vita indipendente, continuavo a provare l’insensata ebbrezza di poterti raccontare il tempo sospeso nel quale eri stata concepita. Sì: sentivo, altrettanto irrazionalmente, che saresti stata una femmina.
Ci immaginavo davanti al mare, a gennaio: facendo i calcoli, saresti arrivata con il freddo. Camminando lungo viale Trieste, in una di quelle mattinate di sole che provano a confondere le stagioni, ti avrei parlato di come ci eravamo ritrovati tutti insieme, per la prima volta, in casa, per un lungo periodo. Non un fine settimana o i dieci giorni di una vacanza estiva, ma oltre tre mesi: io, papà, tua sorella Viola e tuo fratello Luca.
Avrei cominciato, mimandoti gli aneddoti su tuo padre che lavorava dal computer in cucina, mentre tutti noi strisciavamo dietro la sedia per andare a bere o a prendere qualcosa in frigorifero, cercando di non essere visti dai colleghi in diretta video.
Nata digitale, avrei dato per scontata la spiegazione dei dettagli tecnologici: di sicuro tua sorella ti avrebbe già reso protagonista delle sue infinite storie social, anche durante i nove mesi dell’attesa. Lei che era diventata una regista della quarantena. I suoi progressi nel montaggio di scene e nell’apprendimento di effetti speciali andavano di pari passo con le mie cocenti e coerenti delusioni in cucina: il mondo in quei tre mesi si era scoperto panificatore, da noi l’indigestione da pizza mal lievitata aveva rappresentato il rischio concreto di finire in ospedale. Te ne saresti accorta a breve con le mie pappe dai colori fosforescenti e la consistenza cementizia. Eppure eravamo ingrassati, tanto da farmi considerare la trasformazione del mio corpo per farti posto, una normale evoluzione del percorso di merende a base di nutella e salame nelle ore più improbabili della mattina e della sera.
Arrivate alla discesa accanto ai Bagni Tina, avrei osato scendere con la carrozzina sulla spiaggia. Era uno dei motivi per cui avevamo scelto di lasciare Roma. L’orizzonte senza confine del blu tutto l’anno era riuscito a vincere sul tramonto al Gianicolo d’estate. Tu saresti nata nella nostra nuova città. Forse no, non so se ce l’avrei fatta a tradire la tradizione dell’Isola Tiberina come primo sguardo sul pianeta!
Avrei respirato la calma delle acque ferme e limpide del mare di inverno, per confidarti che certi vicoli, scorci, voci di gabbiano e sorrisi di amici di infanzia avevano riempito di nostalgia alcune notti dell’aprile e del maggio passati. Appena possibile, te li avrei fatti conoscere.
Vuoi mettere, però la sensazione della sabbia sotto i piedi con la lana a coprire il resto del corpo! Per la prima volta in quel marzo e aprile così assolati, era stato vietato l’accesso alle spiagge: i granelli lasciati soli, senza nemmeno una zampa a confonderli, giusto la schiuma delle onde ad accarezzare i più fortunati a riva. Il ritmo delle ruote nell’affrontare qualche dunetta, mi avrebbe fatto tornare in mente le canzoncine registrate nei video delle maestre di Luca che non si era mai entusiasmato a sentire, ma io avevo imparato a memoria. Avremo visto passare qualche cagnolino, andati quasi a ruba quando costituivano una strategia per garantirsi un’ora d’aria quotidiana. Avevo ceduto anche io alla tentazione, imponendo a nonno Giorgio di farmi portare la mattina il povero Puck, conteso con zia Anne.
In questo modo avrei potuto descriverti come appariva strano il centro di Pesaro. Deserto e spettrale alle nove di un marzo nel quale erano cominciate a sbocciare le rose tra i cespugli di Piazzale Matteotti; trattenuto, timoroso, con spinte di audacia verso la fine di aprile, quando sparuti ragazzi si arrischiavano a correre intorno alla rocca; timido, ma voglioso di tornare a vivere nel maggio della riapertura, con i rumori dei cucchiaini e delle tazzine nei bar del Corso e il suono dei phon dai saloni di bellezza.
Cresceva la voglia di mostrarsi dopo essersi tanto nascosti.
Non so se a gennaio avrei indossato ancora la mascherina, ma ti avrei mimato i vari modi comici con i quali la portavano coloro che via via ho incontrato durante le file alla Coal. Ero stata scelta per fare la spesa una volta a settimana. All’inizio perché, nonostante la mia proverbiale ipocondria che avresti conosciuto dalle reazioni al tuo primo starnuto, ostentavo un’antipatica leggerezza, considerando troppa esagerata la richiesta di contingentare le uscite alla necessità, quindi mi imponevo di mantenere almeno quella garantita. Ero anche curiosa di osservare i comportamenti degli altri. Quando però, la mattina di un lunedì intuii il terrore negli occhi della cassiera del nostro piccolo supermercato, compresi che il rispetto delle regole sarebbe diventato la sopravvivenza. La mia inutile sciarpa di seta sul viso per entrare mi fece sentire quasi nuda. Appena rientrata, mi misi a cercare in internet ogni dispositivo necessario: disinfettanti, guanti e soprattutto mascherine. Le trovammo grazie ad un’impresa locale che, come fecero in molte, cambiò l’oggetto della propria produzione per adattarsi alle nuove esigenze. Acquistammo dei curiosi becchi di papero in tessuto prima utilizzato per rivestire divani. In poco tempo divenne un oggetto di moda anche quello: c’era chi l’aveva colorata, chi personalizzata con le iniziali, chi in tessuto aderente, vennero inventate quelle trasparenti per consentire di leggere il labiale ai sordomuti.
Avrei agitato le mani e utilizzato ogni espressione delle labbra anche io per illustrarti quando il carnevale senza scherzi durò oltre novanta giorni. Forse proprio in un impeto anarchico a quel punto ti avrei preso per tenerti tra le braccia: il gesto più vietato e difficile da trattenere. Un passo di danza come quello che sembrava facesse zia Anne in una foto che ho conservato: stringeva sè stessa, sperando di fare raggiungere me dal calore che non poteva trasmettermi direttamente. Quanto è stata dura non sfiorare nemmeno la mano di nonna Lucia, quando aumentava il terrore che potesse contagiarsi! Tanto fragile, ma ortodossa e determinata, aveva rispettato ogni disposizione e superato pure la pandemia. Avrebbe accolto la notizia del tuo arrivo, travolta dall’ansia, per poi consegnarmi la certezza che avrebbe trovato il modo di aiutarmi.
Non sarebbe stata la sola, so che avrei potuto contare anche su coloro che sono stati i miei eroi di quei mesi. Viola e Luca come pure Francesco, Valeria Luce e tutti i bambini poco o più grandi di te che hanno resistito e si sono inventati una nuova fantasia. Hanno visto la realtà dalla finestra per novanta mattine, pomeriggi, sere con il sottofondo delle ambulanze, continuando a creare avventure e mondi segreti tra il tavolo e il divano. Le risate dei loro amici erano suoni meccanici dallo schermo, come pure le voci delle maestre e dei parenti lontani: temo si siano abituati a perderne la musicalità per tenere il contatto. Avrei sussurrato, in quel momento che non c’erano, mentre recuperavamo abbracciate la strada verso il centro, che per te, nella città della musica, avrei voluto solo note di violino o pianoforte sfuggite libere dalle finestre del Conservatorio. Mi sarei un po’ rattristata, pensando alle anime allegre e creative di artisti che ci avevano lasciato in quei giorni. Magari avremmo visto un nonno o una nonna spingere un’altra carrozzina, avrei dedicato loro un sorriso sincero, quello che non abbiamo potuto rivolgere ai tanti meravigliosi anziani, patrimonio di memoria, scivolati via nel silenzio, tra le distanze.
Arrivate a via Rossini, però, sarebbe tornato il buonumore: qui ci siamo riviste, senza barriere, io e zia quando abbiamo consegnato le mascherine come volontarie del comune. Pioveva, finalmente una scusa per stringerci sotto l’ombrello. Non c’era ancora nessuno nelle strade, suonavamo ai citofoni e ci aprivano grati, facendoci scoprire altre prospettive di cortili e di sguardi. Io e zia all’inizio avevamo fatto confusione, poi eravamo partite spedite, tornando a casa stanche, ma felici.
La gioia sarebbe stata l’emozione con cui avrei concluso la nostra prima passeggiata in città, magari davanti scuola a prendere Luca, sperando che avessero trovato un modo per riaprirle in armonia. Dipinte sui vetri delle classi della Carducci, ti avrei fatto vedere i disegni degli alberi con la neve, finalmente sarebbero stati coerenti, non come a maggio, dove rimasero impressi, nonostante fossero fioriti i gelsomini nella strada. Tuo fratello avrebbe avuto l’irresistibile espressione scocciata che aveva già all’asilo dopo aver trascorso quattro ore fermo in un’aula e senza play station. Avremmo aspettato al portone, il ritorno di Viola dalle medie. Fin dall’inizio di Via Morselli si sarebbe percepita la sua voce confusa a quella delle sue amiche: ti avrebbe preso subito per mostrarti loro e insegnarti qualche espressione buffa. Forse a casa avremmo trovato papà che non deve più stare fuori tutta la settimana, ma almeno due giorni può addirittura pranzare con noi, tentando di mantenere la dieta.
Avremmo, sarebbe, forse…
Ho accarezzato la pancia e ti ho salutato una mattina di sole di giugno, quando ho capito che non saresti arrivata. Sono onesta ho tirato anche un sospiro: non so se avrei trovato la forza per quelle notti, la pazienza per i pianti, la cura per i giorni. Avrei avuto però tanto da raccontarti sui mesi nei quali abbiamo provato paura, ansia, nostalgia, distanze e voglia di stare insieme, di nuovo. Saresti stata il pensiero di luce che racchiude la speranza anche nelle storie più buie.
Ah: abbiamo preso un gatto, rosso, non un cane, chiamato Zorba in onore di un eccezionale scrittore che in quei novanta giorni se ne è andato, lasciandoci un patrimonio di parole e di gioia.
Le parole sono tracce fondamentali per testimoniare che l’orrore c’è stato. La voce dei testimoni è eco nella nostra anima. Anne ha disegnato l’indicibile per chi non l’ha vissuto. La luce deve rimanere accesa sempre.
La ricerca per conoscere il passato è linfa per il futuro. Non si smetta mai di conoscere e trasmettere per evitare che possa accadere ancora.
La storia è memoria che vola e sopravvive alle tenebre.
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