“Noi caregiver abbiamo perso ogni dignità, è umiliante mostrarsi nel proprio dolore ma noi lo facciamo perché è l’unico modo per non farci sopraffare dal senso di vuoto, di fine del concetto terreno di vita.” Ad Elena Improta che svolge il mestiere meno riconosciuto, per cui è necessaria la maggiore dose di sopportazione e di forza, dedico il Primo Maggio.
Questa mattina Mario si è svegliato molto presto, come ogni giorno. Gridava lungo il corridoio perché voleva subito cominciare i suoi riti quotidiani. Si muoveva lento, battendo i pugni sul muro e lamentandosi. La voce dolce di sua madre si è inserita lieve: “tranquillo, non urlare, ora ti preparo la colazione sono le 6 e mezzo.” Elena riprende e condivide sui social la sua normalità che è simile a quella di Irene, Sara, Debora e tanti altri genitori di figli e figlie con disabilità gravi. Non lo fa per mostrarsi eroica agli occhi di chi, guardandola, pensa “capitasse a me, non ce la farei mai”: il suo è l’unico modo per non farsi sopraffare da quello che definisce il senso di vuoto.
Documenta la vita di un caregiver, professione d’amore e di fatica per cui non sono previste ferie o festività. Il primo maggio per i rappresentanti di una categoria ascrivibile al sindacato degli invisibili, sarà solo un’altra alba da iniziare, consapevoli del passaggio consueto delle ore, nella speranza di conquistarsene almeno un paio di sonno.
Proprio ad Elena invece vorrei dedicare i miei pensieri di domani.
Non so le volte che le ho scritto e risposto, a lei come ad Irene o a Debora, che mi dispiace non poter fare nulla per loro, cercando solo vagamente di comprendere una stanchezza che bisognerebbe trovare qualsiasi modo per alleviare, senza costringere a chiedere. Le parole sono poca cura, spesso sono anche fastidiosi orpelli che consolano più il mittente che il destinatario.
Domani è la giornata dedicata ai lavoratori in tutto il mondo: uomini e donne che, mai come in questo periodo, temono di perderlo, non ritrovarlo, non avere occasione per cercarlo. La fragilità del presente e l’incertezza totale del futuro è sembrata unire verso un unico destino. L’apparenza che ci voleva tutti sulla stessa barca è sfumata presto. Gli unici a capirlo, senza necessità di retorica, sono stati coloro che erano abituati, ai quali la pandemia ha solo consegnato un’amara conferma in più: i diritti, tra cui quello alla dignità professionale e civile, non sono garantiti.
Elena è già stata costretta a lasciare il suo posto, dove per tanti anni non si era mai risparmiata, nonostante le difficoltà di far conciliare la cura di Mario. Lo ha fatto quando ha visto sparire le ultime garanzie di una assistenza che le consentisse di sapere suo figlio al sicuro durante la sua giornata lavorativa. Non ha scelto: ha dovuto scegliere. Appena potrà, dovrà lasciare la sua città, il luogo dei suoi ricordi, dei suoi affetti, delle sue battaglie. Si trasferirà in Toscana, per dedicarsi, con la Onlus Oltre lo sguardo, al progetto per il dopo di Noi, per cui ha messo la sua villa a disposizione di altre famiglie per le quali è necessario costruire da ora quanto accadrà ai propri cari quando non ci saranno più. Si è specializzata, ha preso un diploma come counselor, trovando non si sa come il modo di studiare. Ha scritto un libro.
Elena, abituata a vivere l’impegno per sé e per gli altri in prima persona, va avanti. In queste settimane ha dovuto sperimentare anche i limiti dell’isolamento. Con decine di autocertificazioni, ha rischiato, sin da prima che i decreti ne riconoscessero il permesso, continuando a portare Mario a fare il suo giro in macchina mattutino; ha inventato nuove attività per distrarlo, cercando di non interrompere mai quelle della sua fondamentale routine; ha raccolto la disponibilità di alcuni preziosi assistenti domiciliari che, seppur con alcune restrizioni, hanno continuato a dedicarsi Mario.
Elena non si è rassegnata, ha messo la sua esperienza a disposizione di giornalisti e trasmissioni televisive per aprire uno squarcio in quel mondo che sembra distante a chi non ne è coinvolto direttamente. Ha dato una voce e una immagine visibile ai tanti suoi colleghi caregiver, alle loro necessità e a quel modo di proseguire, rimboccandosi le maniche anche in tempo di coronavirus.
Non si è illusa, ma ha lottato affinchè, in una situazione nella quale si sta rivedendo l’intera organizzazione della società, ci fosse spazio per predisporre sostegni per le persone con disabilità e chi li assiste. Forse, se le Regioni, a cui è stato demandata la decisione nell’ultimo DPCM, lo stabiliranno: potranno ripartire alcuni servizi e riaprire i centri diurni, ma su chi ha sostituito anche questo tassello, non una parola.
Elena continua a documentare: a mostrare quanto presto cominci e tardi finisca la giornata che caratterizza la sua professione d’amore infinita. Domani alle 6 e mezzo preparerà il carrello della colazione, poi cucinerà i suoi piatti migliori, sarà accanto a Mario anche quando si potrebbe innervosire, tirarle i capelli o morderla. Non c’è festa per i loro diritti, ma rimane la rabbia che dovrebbe far trovare le parole giuste per condividere una richiesta di aiuto collettiva.
In una società civile che vuole ripartire veramente, nessuno deve essere invisibile e lasciato solo. Oppure, come ripetono tante madri e padri caregiver, non prendiamoci in giro: non andrà mai tutto bene.
Dimenticavo: Elena non smette mai di sorridere, per Mario e per gli altri. La sua traccia volante l’ ha scritta in un post del 28 aprile:
“Vorrei solo sentire il sole sulla pelle, ridere, andare in bicicletta, lasciare che l’acqua del mare mi bruci gli occhi. L’estate arriverà, ma senza amore.”
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